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giovedì 2 aprile 2020

Immancabilmente, ogni qualvolta varcavo l'ingresso del palazzo in cui abitava il mio amico Antonio 
venivo affrontato e seguito dallo sguardo inquirente e severo del portiere dello stabile, orgoglioso del suo inseparabile cappello. Servire famiglie borghesi lo rendeva orgoglioso, e quel cappello era per lui il segno evidente del suo piccolo ma indiscutibile avanzamento sociale .Un servo resta sempre un servo, sebbene siano molti a credere che servire dei signori sia più dignitoso che servire dei miserabili, e che il contatto quotidiano con famiglie borghesi trasferisca loro, per una misteriosa osmosi, una certa percentuale di signorilità. Questa convinzione li rende altezzosi nei confronti dei più umili, confermando il destino di tutti i mediocri: essere deboli verso i forti, e forti verso i deboli.

Siamo a San Severo, nei primissimi anni '70, in una città vitale, ottimista e proiettata verso la modernità. Una città nella quale una solida borghesia prospera tra benessere ed alta coscienza di classe, che si manifesta anche in un senso del decoro e delle buone maniere preclusi alle classi sociali più basse. Una borghesia consolidata da almeno un paio di generazioni. Borghesi, figli di borghesi, che hanno sposato altri borghesi, dai solidi patrimoni e ben inseriti un una opportuna rete di relazioni, una specie di massoneria naturale, senza riti, tessere o logge.

Ricordo bene gli androni dei palazzi in cui abitavano i miei amici "figli di papà". Erano tenuti con cura, con tanto di passerella rossa sulla prima rampa di scale, guardiola per il portiere, boiserie alle pareti, e qualche volta un pannello decorato sui muri, a rendere ancora più signorile il contesto. Ricordo sopratutto l'odore. Quell'odore particolare comune a tutti i palazzi signorili della città. L'odore della pulizia, dell'ordine, del benessere e delle buone maniere.

Il padre di Antonio era ingegnere, imprenditore di successo, di famiglia benestante. Anche la madre, se dovessi giudicare dai modi, aveva origini borghesi. D'altro canto era normale che i matrimoni avvenissero tra persone della stessa condizione sociale. La loro casa era di grandi dimensioni, perché quasi sempre i benestanti acquistavano 2 appartamenti contigui e li univano. Si tratta di una costante che ho riscontrato in quasi tutte le case dei miei amici di allora, amici benestanti, naturalmente. Le ampie superfici consentivano di organizzare la casa con tutte le comodità: una cameretta per ogni figlio, doppi e tripli sevizi, cucina con tinello adiacente, grande salone di rappresentanza e spesso una stanza utilizzata come salotto. Generalmente gli arredi erano in stile, ma non mancavano arredi moderni e ambienti realizzati su misura dagli architetti allora in auge. Il denominatore comune era l'ostentazione del benessere, un'ostentazione decorosa e discreta ma che dava senz'altro la misura della propria solidità economica e della propria educazione. Lo stesso vocabolario era adeguato alle circostanze: servante, etagere, sommier, pettinouse, bergere, abat jour, secretaire, boiserie. Diversamente da oggi, la lingua franca della borghesia era il francese, e dire reclame piuttosto che pubblicità faceva la differenza.

Da allora è passato mezzo secolo, ed il benessere diffuso e la massificazione dell'istruzione, hanno prodotto enormi cambiamenti sociali. Una nuova borghesia ha soppiantato la vecchia, che ha abbandonato la nostra piccola e provinciale città per continuare a prosperare altrove. Le vecchie famiglie che formavano la classe dirigente locale, coscienti del fatto che la vita è una guerra continua che vede vincitori sempre coloro che dispongono delle tre armi fondamentali, la conoscenza, le relazioni e il denaro, ha provveduto a mandare i propri figli nelle migliori università. Le relazioni potevano essere trasmesse agli eredi, così come il denaro, ma la conoscenza doveva essere acquisita personalmente da ogni giovane rampollo. Mandare i figli a studiare in prestigiose e spesso costose università voleva dire non solo istruirli nel migliore dei modi, ma anche arricchirli di esperienze che avrebbero fornito loro quella marcia in più necessaria ad emergere. Dopo la laurea si potevano permettere il lusso di specializzarsi all'estero, oppure di iniziare la pratica dalla professione in studi di altissimo livello.

Sta di fatto che la gran parte degli eredi di questa borghesia ha messo radici altrove, trovando fortuna lontano dalla propria città. Nel frattempo i vecchi borghesi sono in gran parte passati a miglior vita. Il vuoto che si è creato è stato colmato da una nuova borghesia, sostanzialmente diversa dalla precedente, e la cui origine popolare si manifesta appieno in ogni ambito: nei modi, nel linguaggio, nei gusti. Se facciamo una passeggiata nel centro storico di San Severo restiamo stupiti dalla quantità di immobili messi in vendita, con cartelli sbiaditi dal tempo a conferma di un mercato che langue. Molti di questi edifici sono palazzetti un tempo abitati dalla vecchia borghesia, quella che ha visto la forte emigrazione dei propri figli. Alla morte dei genitori i figli, oramai intenzionati a non più tornare al paese natale, mettono in vendita gli immobili, e sono disposti a realizzare a qualunque prezzo. Vendere è difficile. Abitare nel centro storico è scomodo, e ristrutturare gli edifici è estremamente costoso. Ma di questo parleremo più in la.

La mia famiglia non apparteneva alla borghesia, tanto per le sue origini quanto per una questione di patrimonio. Eppure tra tutti gli amici di quegli anni sentivo una certa affinità verso quelli tra loro considerati "figli di papà". Perché, sebbene non ricchi, l'educazione ricevuta e le esperienze dell'infanzia ci accomunavano. Mio padre non era molto istruito e proveniva, come mia madre, da una famiglia molto povera. Eppure fin da giovane ha sempre svolto lavori che avevano più a che fare con il cervello che con le braccia. Per gran parte della sua vita ha venduto libri, che lui amava e leggeva con passione. Ed i libri sono stati una presenza costante  nella mia infanzia e nella mia adolescenza, come lo sono tuttora. Il mio amore nei loro confronti va oltre il piacere della lettura. Esso si nutre dell'oggetto in se, del vero e proprio prodotto industriale. Mi piace toccarlo, sentirne l'odore, scoprirne l'impostazione grafica, i caratteri, la carta, l'impaginazione, la copertina. L'amore per i libri è una malattia che da dipendenza. Uno dei miei maggiori rammarichi è quello di non aver svolto un lavoro che avesse a che fare con i libri e l'editoria. Pazienza, sarà per la prossima vita!

Babbo, così chiamavamo nostro padre, ha sempre indossato giacca e cravatta, e non ha mai parlato in dialetto. Era intraprendente, e non smetteva mai di fare grandi progetti che quasi mai si realizzavano. Nel modo di fare, ed anche per una certa somiglianza fisica, mi ricordava Vittorio Gasmann quando interpretava il cialtrone pieno di ambizioni ma privo dei mezzi per realizzarle. Scriveva poesie, e come tutti i poeti era un sognatore, capiva ed apprezzava la cultura, l'arte e la bellezza. Per questo fino ai 10 anni, abitando a Milano, babbo non mancava ogni domenica di portare me e mio fratello a visitare musei e monumenti; di questo non smetterò mai di ringraziarlo. Successivamente abbiamo abitato per un breve periodo a Roma, in via Cavour, a due passi dal Colosseo. La casa era al primo piano di un palazzo umbertino, casa che ricordo ancora bene in tutti i suoi particolari. Si andava a giocare ai Fori Imperiali, vicini a casa nostra, circondati dalla bellezza e dalla grandezza dell'antica Roma, e, inconsapevolmente, ce ne nutrivamo. Altri tempi!

Il pranzo domenicale al ristorante era un rito irrinunciabile. Si andava da "Valentino" sempre su via Cavour, e noi bambini avevamo il nostro menù abituale: tagliatelle alla bolognese, cotoletta alla milanese e patatine fritte. A Fontana di Trevi, ancora nel '69, l'eco del film "la dolce vita" era ancora vivo, ed era frequente che qualche turista straniera volesse emulare le gesta di Anita Ekberg. Io guardavo divertito e sentivo l'euforia del mondo avvolgermi e trascinarmi. Roma non dormiva mai, e nessuno ancora immaginava quel che sarebbe accaduto dopo qualche tempo con gli anni bui del terrorismo. Purtroppo, dopo la troppo breve parentesi romana la mia famiglia si è trasferita definitivamente a San Severo. Credo che il trasferimento da due grandi città come Roma e Milano verso una cittadina di provincia abbia lasciato in me i postumi di un trauma mai completamente risolto. Per cinquant'anni non ho mai smesso la nostalgia per le affascinanti nebbie della Milano degli anni 60. Come ho già detto la mia non era una famiglia borghese, ma per le esperienze e per il tipo di educazione ricevuti avevamo i modi e le apparenze dei "figli di papà". Tra me e gli amici borghesi c'era senz'altro una maggiore affinità rispetto a quella che poteva esserci verso amici delle classi popolari. Anche perché, arrivato a San Severo, ero totalmente incapace di parlare in dialetto, e quando cercavo di farlo apparivo sicuramente ridicolo.

E' inutile girarci intorno; quasi sempre un ragazzo di origini borghesi ha il destino segnato. Il suo futuro non può che essere uguale a quello della sua famiglia di origine. Diverrà sicuramente un professionista, un dirigente pubblico, forse entrerà in banca o farà l'insegnante,  o forse sarà un imprenditore di successo che gestirà l'azienda di famiglia. Può anche intraprendere la carriera artistica, intesa in tutte le sue manifestazioni. Gianna Nannini, Ornella Vanoni, Patty Pravo, Mina, provengono tutte da ricche famiglie borghesi. O ancora Monicelli, Visconti, Leo Longanesi, Curzio Malaparte. L'elenco potrebbe essere lunghissimo. Ma pensiamo anche al nostro concittadino Andrea Pazienza, che non era certo figlio di un bracciante, o a Renzo Arbore, figlio di un avvocato, nonché Marchese. La ragione di tutto ciò sta, probabilmente, nel fatto di essere cresciuti in un ambiente famigliare in cui le incombenze economiche dettate dalla sopravvivenza non impegnavano se non in parte i suoi componenti, i quali potevano dedicarsi anche ad attività meno materiali, tese ad arricchire lo spirito più che il corpo. L'edonismo dei poveri è limitato e quasi annullato dalle necessità contingenti ed improrogabili: mangiare, pagare le bollette, pagare l'affitto. L'edonismo dei borghesi si permette il lusso di travalicare i piaceri materiali, e di esercitarsi anche e sopratutto verso l'immateriale: la cultura, la bellezza, l'arte. Non ho mai visto una persona di origini borghesi fare l'operaio, il bracciante, l'artigiano, il muratore, il netturbino. Piuttosto ho visto tanti fannulloni, questo si! Ho visto persone sopravvivere dilapidando pian piano i beni ereditati, o sopravvivere di stenti, ma mai li ho visti fare lavori umili.

Fin dall'infanzia il figlio di un borghese acquisisce la consapevolezza di appartenere ad una classe sociale superiore, e di detenere, per tale ragione, dei diritti propri di quella classe. Qualunque progetto che riguarda il suo futuro non deroga da questa condizione. Esiste sempre un parentesi nella sua vita in cui sembra avere degli sbandamenti, prendere strade che non gli appartengono, rinnegare la propria classe. E così indossa l'eskimo e manifesta contro la stessa classe alla quale egli appartiene. Ma lo fa comunque con le sue Clark e la sua Lacoste. Ne mancherà le sue sacrosante vacanze estive a Silvi Marina, dove si ritroverà con i suoi amici borghesi a progettare la rivoluzione prossima ventura, sorseggiando una coca seduto sulla sua moto da cross. Sono sbandamenti temporanei, ben evidenziati da una bellissima canzone di Venditti: "compagni di scuola". Passerà l'adolescenza ed il ragazzo rientrerà nei ranghi, frequenterà la sua brava università, si sistemerà economicamente e sposerà una bella ragazza borghese come lui. Non lo farà probabilmente per una scelta consapevole, ma per una semplice ragione di affinità.

E' quello che è accaduto al mio amico Antonio, di cui ho accennato all'inizio. So che è diventato ingegnere come il padre, e vive in Emilia costruendo e vendendo ville per ricchi. E' accaduto anche al mio amico Elia, diventato notaio a Bologna, o al fratello, proprietario di una farmacia. Sia il padre di Antonio che il padre di Elia furono, insieme ad altri borghesi, i fondatori dello "sporting club" di San Severo. L'associazione si costituì nel 1966, e divenne il punto di incontro di buona parte della borghesia locale. Disponeva tra le altre cose di due campi da tennis che allora ero uno sport praticato esclusivamente dai ricchi. I miei amici vi si recavano per giocare lunghe partite con i loro compagni, indossando l'abbigliamento giusto, quello sponsorizzato dai grandi campioni: Lacoste, Sergio Tacchini, Fila. Gli stessi marchi che indossati anche al di fuori dei campi da tennis, rappresentavano un segno di appartenenza. Perché non bisogna dimenticare che l'abito, da che mondo è mondo, è sempre un manifesto attraverso il quale ognuno comunica agli altri il proprio stato, o le proprie idee, o la propria classe sociale.

A casa di Antonio, siamo nel '72, vi andavo per fare i compiti. In realtà di compiti se ne facevano pochi e si passava la gran parte del tempo nei cazzeggi tipici di quell'età. Ma quella, si sa, è anche l'età dei primi amori, delle prime struggenti passioni. Ed è proprio in quella cameretta che nacque la mia prima cotta. Lei si chiamava Anna, ed apparve improvvisamente dalla finestra che si affacciava nello stesso pozzo luce nel quale si affacciava  la cameretta di Antonio. Uno sguardo, una parola, una chiacchiera, finì che ci fidanzammo. Come ogni amore anch'esso ebbe la sua colonna sonora, ed era il ritmo di "banana boat". Ognuno di noi riascolta con grande piacere quelle che furono le canzoni che hanno accompagnato i nostri tanti amori, e le trova sempre bellissime, anche se poi, ad essere obiettivi, erano delle gran cagate. Ma ciò che le rende davvero belle è il riflesso condizionato che producono nella nostra mente, stimolando ricordi piacevoli di un tempo irripetibile. Allora,  avevo 14 anni, si amoreggiava a distanza, e così, ogni volta che potevo, mi trattenevo sul marciapiede di fronte al suo balcone per poterla vedere e scambiare qualche bacio volante. Oppure l'aspettavo la mattina per accompagnarla a scuola, che allora si trovava dove oggi c'è la "Marchesa", così da arrivare sempre in ritardo alla "Palmieri" che io frequentavo. Qualche volta andavamo a ballare a qualche festa in casa , e non mancò l'occasione di imboscarci. Fu allora che ebbi le mie prime esperienze sessuali, che non andavano oltre i baci e i toccamenti. La storia con Anna finì, naturalmente, ma non ricordo ne come ne quando.

A quel tempo le ragazze "per bene" dovevano limitarsi alle feste in casa, sotto l'occhio vigile dei genitori dell'ospite, che, intelligentemente, fingevano spesso di distrarsi e si allontanavano dalla stanza in cui la festa si svolgeva. Era d'obbligo che ogni comitiva che si rispettasse dovesse avere a disposizione un locale, quasi sempre una cantina, in cui passare il tempo, ballare e possibilmente, appartarsi con la ragazza. Si cercava di far sembrare questi club delle discoteche. Per le sedute ci si procurava i sedili posteriori delle automobili. Come luci si utilizzavano i fari della auto sui quali venivano apposte delle pellicole colorate trasparenti. Per la musica ci si arrangiava con impianti stereofonici assolutamente inadeguati. Alle volte non si andava oltre un semplice mangiadischi. Le ragazze che frequentavano questi club erano considerate zoccole, como lo erano quelle che avevano l'ardire di frequentare una discoteca. Ne ricordo alcune: il "Giaguaro" luogo di perdizione di cui si favoleggiavano le trasgressioni, che si trovava nel piano interrato di un palazzo del Viale della Stazione, con accesso dal retro; il "Gatto Nero" verso via Lucera, La botte, sotto l'omonimo ristorante alle spalle del Credito Italiano, il "London Bar" in piazza incoronazione.

C'era un altro posto mitico per imboscarsi con una ragazza, ed era lo sterrato alle spalle dell "Cassa Mutua". Passeggiando sul Viale della Stazione si cercava, lentamente, di portare la preda nelle strade meno illuminate alle spalle dell'"hotel Dauno", proprio dove stava l'INAM. Lo feci anch'io con una ciaonè, una ragazza venuta a passare le vacanze estive dalla Germania, dove i genitori erano emigrati. Fu lei che mi insegnò a dire Ich liebe dich.

 Effettivamente nei primi anni '70 nel mese di agosto San Severo si popolava di emigranti che tornavano al proprio paese. Questa massa era composta in prevalenza da disgraziati talmente miserabili da essere costretti ad emigrare nelle grandi città industriali del nord, dove trovavano lavoro e possibilità di sopravvivenza, e dove facevano, almeno all'inizio, una vita davvero grama. Quando abitavo a Milano, alla fine degli anni '60, poco lontano da casa mia vi era una specie di villaggio che noi chiamavamo "degli sfrattati". In realtà si trattava di una zona recintata piena di casermoni composti da tanti stanzoni. Ogni stanzone era assegnato ad una famiglia, che poteva disporre di lavabi e servizi igienici in comune, posti in fondo a degli stradoni sterrati, all'aperto. Immaginateli in inverno, con la nebbia e la neve a terra, con le stufe a legna che fumavano senza sosta, e con quell'umanità miserabile e disgraziata, e potete avere un'idea di cosa potevano essere i campi di concentramento nazisti. Eppure questo mondo parallelo così fisicamente vicino al mondo del benessere piccolo borghese, era in realtà così lontano. Una barriera culturale e psicologica separava il mio mondo da quello dei suoi abitanti.  Mentre con gli amici mi divertivo nella piscina comunale "Mincio", al di la delle grandi vetrate si scorgeva quel mondo a cui, per assoluto divieto dei genitori, non avremmo dovuto accedere.

La gran parte degli emigranti che tornavano al paese cercavano in tutti i modi di apparire per quel che non erano. Volevano dimostrare di aver fatto notevoli progressi economici e di essersi realizzati. Invece su al nord facevano una vita di duro lavoro e di sacrifici, e subivano discriminazioni quotidiane, particolarmente quelli che più avevano difficoltà ad integrarsi. I figli, appena compiuti i 15 anni, venivano mandati subito al lavoro, e se avessero voluto studiare lo avrebbero fatto nelle scuole serali. Sono tanti quelli che, iniziando come garzoni nelle fabbriche e studiando la sera, hanno finito per laurearsi e fare ottime carriere. Questi ciaonè, se ne avessero avuto la possibilità, sicuramente avrebbero trascorso le loro ferie al mare. Infatti appena le condizioni economiche lo permisero non tornarono più al loro paese, se non per un paio di giorni, giusto per salutare parenti ed amici.

Comunque allora il loro arrivo era salutato con grande e sincera gioia dai famigliari, e per un po di giorni era una festa continua, che si manifestava, come sempre accade in Italia, con grandi abbuffate. Noi ragazzi diventavamo, in quei giorni, degli accaniti cacciatori di queste ragazze venute dal nord, che ci sembravano così emancipate, e quindi più facili alle nostre conquiste. Nascevano e morivano amori nel volgere di una settimana, che è il destino di tutti gli amori estivi. Quando passeggiavamo sul viale o in villa mostravamo orgogliosi le nostre conquiste, quasi fossero trofei alla nostra mascolinità. Ci sembravano belle ed affascinanti, ma quasi sempre erano racchie ed analfabete. Erano le scariche di testosterone di quella magnifica età a farcele sembrare delle principesse.

Naturalmente non tutti i ragazzi trascorrevano l'estate a San Severo. Gran parte dei miei amici, i figli di papà, come allora venivano chiamati i figli delle famiglie benestanti, al termine delle scuole si trasferiva nella casa al mare. Quasi sempre queste case si trovavano a Francavilla, Silvi Marina o San Menaio. Erano queste le località dove nel dopoguerra le famiglie borghesi acquistavano la casa per le vacanze che in quel tempo era un lusso riservato a pochi. La gran parte della popolazione risolveva le proprie brevi vacanze con qualche giorno al mare, una toccata e fuga con macchine cariche di ombrelloni, tavolini, sdraio, salvagente ed una scorta di cibi da sfamare un plotone di bersaglieri. Negli anni '70 ebbe un grande sviluppo Campomarino, dove comprò casa la nuova borghesia che si andava formando grazie al boom degli anni '60, borghesia formata in prevalenza da commercianti e piccoli imprenditori. Con la diffusione del benessere anche artigiani, piccoli commercianti, impiegati, riuscirono a comprare la case per le vacanze, e lo fecero sopratutto a Marina di Lesina. Infatti, mentre a Francavilla si respira un'aria più signorile, a Marina di Lesina l'origine popolare degli ospiti si evince da tanti piccoli particolari. Una insopportabile puzza di altezzosi e presuntuosi arricchiti dai modi bifolchi pregna l'aria di questa località, tanto malandata urbanisticamente da sembrare più la periferia povera di una cittadina mediorientale che una località balneare.

La partenza dei "ciaonè" segnava la fine dell'estate, e San Severo riprendeva la sua vita di tutti i giorni. Per chi non ha vissuto quegli anni è difficile immaginare la vitalità, l'entusiasmo, l'intraprendenza e l'ottimismo della città, che poi erano quelli dell'intera nazione. A San Severo c'erano tantissime aziende di una certa dimensione, che occupavano, nel complesso, migliaia di operai. Da quelle del settore legno, come la Fams, De Matteis, Dielle, Ledam, Lear, Legnotubex, Gagliardi e molte altre minori, al Mulino Casillo, alla distilleria Novaro, alla distilleria Rodi ed a quella di via Checchia Rispoli, alle officine delle Ferrovie del Gargano, al Macello Comunale, alla centrale del latte di via Torremaggiore, alla vetreria D'Amico o a Battaglino arredobagno. Per non parlare delle varie cantine, sia cooperative che private. Tutto sembrava procedere verso un futuro in cui il benessere si sarebbe diffuso ed avrebbe proiettato la città verso la modernità. Le insegne dei negozi aumentavano, tanto da rendere la città un punto di attrazione commerciale per tutto l'alto tavoliere. Apriva il primo grande magazzino, il Gamma, di fronte al teatro comunale, con un gigantesca insegna posta sul tetto dell'edificio e rivolta verso l'ingresso della villa comunale. Successivamente aprì anche l'Upim in piazza della Repubblica. L'apertura di nuovi bar o il loro rifacimento era il segno della modernità e delle grandi ambizioni che la città aveva. Aprì il Piper, che all'inizio ebbe grande successo, trascinato dal mito del famoso locale romano, il Neogel del compianto artista Maggio si rinnovò, realizzando una Tea Room ed il Roof Garden, ed apri il London Bar che all'inizio ebbe la pretesa di essere un night, in cui si esibirono nomi noti dello spettacolo italiano. Insomma, i tempi cambiavano, i redditi aumentavano e la gente aveva voglia di godersi la vita. Grande furore destò in quegli anni l'apertura della Pizzeria Romana sul viale della villa.

A proposito del mitico viale, negli anni settanta era il luogo prediletto dello struscio, che si estendeva alla Villa Comunale. Con i miei amici frequentavo il lato sinistro del viale, quello verso piazza Cavallotti. Il lato destro era quello da sempre più frequentato, anzi potrei affermare che era l'unico lato su cui si passeggiasse. Ad un certo punto i figli di papà si trasferirono sul lato sinistro, anche perché era quello in cui c'era il negozio di articolo sportivi "Agricola". L'attività sportiva, a quel tempo, era una prerogativa della borghesia, sopratutto certi sport, come il tennis, la pallacanestro, lo sci. E quindi erano i figli di papà a frequentare maggiormente quel negozio che vendeva, oltre tutto, anche normale abbigliamento, avendo l'esclusiva di alcuni marchi: i jeans Wrangler o Levi's, le polo Lacoste o Fila, i giubbotti Monclair. Sempre sul lato sinistro del viale si ritrovavano i giocatori della Cestistica, che proprio in quegli anni ebbe il suo periodo epico. Una piccola realtà di provincia raggiunse in pochi anni, sotto la guida del professor Peluso Cassese il traguardo della serie B. Nel pallone pressostatico di Via Apricena un'intera generazione sognò di scrollarsi di dosso i limiti della provincia e di entrare a pieno titolo nel novero delle città importanti. I nomi di Magnifico, Di Cristino, Rotondo, Fratta, Crudele, Falcone, entravano nei nostri discorsi di tifosi ed alimentavano le nostre ambizioni. Nel tardo pomeriggio ci si trovava spesso all'interno del "palazzetto" ad assistere agli allenamenti della squadra di basket. Era, come al solito, una specie di ritrovo esclusivo, dove raramente accedevano ragazzi delle classi popolari, che avevano altri interessi.

Altro luogo di ritrovo dei figli di papà era il negozio di motociclette di Claudio Greco. Questo amico, rientrato con la sua famiglia da Milano dove gestiva un'officina meccanica, aprì un negozio in piazza Plebiscito, in un minuscolo locale sul lato sinistro della Camera del Lavoro. Il locale era talmente piccolo che ogni giorno occorreva un'ora per mettere fuori sul marciapiede tutte le moto, ed un'ora per rimetterle all'interno. Ci si ritrovava li perché molti amici di allora praticavano il motocross, ed avevano delle moto. Felice, che faceva anche delle gare, Lello, Rino, Gianclaudio, Elia, Roberto. Anche il possesso di una moto da cross era una peculiarità dei figli di papà. Io, naturalmente, non ne possedevo, e mi accontentavo di usare, di tanto in tanto, quelle degli amici.

I primi anno 70 erano anche quelli dell'impegno politico dei giovani. Allora come oggi i giovani erano facile preda dei demagoghi di tutti i partiti, sopratutto quelli di sinistra. I giovani sono pieni di entusiasmi, e per propria natura aspirano e credono nella giustizia sociale, nell'uguaglianza, nella pace nel mondo. Sono degli ingenui, e per questo facile preda di chi sa utilizzarli a proprio vantaggio. Il partito che meglio di altri è riuscito in questo progetto è stato sicuramente il Partito Comunista. Con la sua efficiente macchina di propaganda è riuscita a plagiare milioni di giovani facendo loro credere che i buoni fossero tutti da una parte ed i cattivi tutti dall'altra. I buoni naturalmente erano i sovietici o i cinesi, paesi in cui la libertà, la giustizia ed il benessere si erano finalmente realizzati. Gli americani, invece, erano gli sporchi imperialisti che volevano sfruttare in tutto il mondo la classe operaia a favore dei capitalisti. E così noi giovani, o la gran parte di noi, divenimmo marionette nelle mani di questi furbacchioni.

Ogni occasione era buona per ciclostilare dei volantini da distribuire davanti alle scuole. Ed ogni occasione era buona per proclamare uno sciopero. Bastava che tre o quattro di noi si mettessero all'ingresso dell'istituto ed impedissero l'ingresso ai primi studenti che subito il resto del gregge si adeguava, Anche perché per tutti era l'occasione di saltare le lezioni ed essere giustificati. Naturalmente proclamare uno sciopero in una bella giornata di sole era più facile, perché la bella giornata, per sua natura, rendeva molto triste l'entrata in aula. Un'altra cosa importante da ricordare è che noi di sinistra avevamo la nostra divisa: eskimo, maglione abbondante a maglia grossa, camicia militare acquistata al mercato americano, anfibi. Naturalmente parlavamo di Marcuse o di Marx senza ne sapere ne capire un cazzo, semplicemente ripetendo stupidi luoghi comuni che il partito ci inculcava. Senza parlare poi del dovere di sorbirci le musiche degli Inti Illimani. Lo voleva il Partito, e così sia!

Anche la destra aveva i suoi giovani illusi, sebbene fossero meno di quelli di sinistra. Anche loro indottrinati e plagiati, erano delle pedine da mettere nella scacchiera dei giochi di potere. La divisa del militante di destra pretendeva le basette tagliate corte, i Ray-ban e abiti di marca. Quella, per intenderci, dei Sanbabilini. La stupidità, comunque, regnava da entrambi gli schieramenti. Ricordo che in occasione di un comizio che l'onorevole Almirante avrebbe dovuto tenere in piazza Municipio, tutti noi di sinistra fummo mobilitati per impedirne lo svolgimento. Piazza Municipio era piena di poliziotti della Celere e di noi giovani comunisti. Alla fine, per evitare disordini, il comizio non si fece, a dimostrazione che gli antifascisti sono i peggiori fascisti, allora come oggi.

Noi di sinistra avevamo due grandi nemici: i fascisti ed i borghesi. Ogni cosa dispregiativa era associata alla borghesia: atteggiamento borghese, interessi borghesi, privilegi borghesi. Il borghese, alla fine, rappresentava la classe responsabile di tutti i mali del mondo, mentre tutte le qualità dell'umanità risiedevano nel proletariato. Nessuno aveva il coraggio di dire che l'ambizione di ogni proletario era di vivere come un borghese, ed i sacrifici che gli operai facevano erano finalizzati a far studiare i figli e dargli un futuro borghese. Nessun operaio desiderava che il proprio figlio facesse l'operaio. E gli stessi dirigenti del Partito, che tanto sbraitavano contro la borghesia, erano i più borghesi tra i borghesi. Avevano macchine costose, vestivano abiti di sartoria, frequentavano ristoranti di alto livello, frequentavano salotti di nobili, industriali, intellettuali. Tutta la politica, non diversamente da oggi, era pervasa da una grande ipocrisia. Perché la condizione borghese è l'ambizione di ogni persona, allora come oggi. Quella del comunista era una vera professione che consentiva, e consente tuttora,  a coloro che la praticavano di vivere agiatamente e guadagnare fette di potere sempre più grandi. Nessuno disprezza i lavoratori quando i dirigenti del Partito Comunista, i quali, dopo aver arringato la folla di un comizio contro gli industriali ed i ricchi, si ritrovano con gli stessi industriali a cenare in qualche attico romano sorseggiando vini costosissimi. O si ritrovano a passare le vacanze in esclusive località frequentate esclusivamente da intellettuali, nobili, industriali, banchieri, politici di ogni schieramento. La base del partito, di ogni partito, non si rende conto, nella sua ingenuità, che il popolo, nella storia dell'umanità, non ha mai contato un cazzo. Questo valeva nel passato così come vale per il presente.

Ogni rivoluzione, da quella francese a quella russa, è stata organizzata, guidata e gestita sempre da una minoranza di borghesi. Il popolo, plagiato, illuso, manipolato, è stato usato come cavallo di troia per accedere al potere. Alla fine di ogni rivoluzione gli schiavi continuano a fare gli schiavi, i poveri a morire di fame, i lavoratori a sudare nelle officine o sui campi. Ma quelli che alla fine diventano classe dirigente sono sempre borghesi, i quali hanno avuto l'educazione e l'istruzione per poter comandare. In qualunque epoca, in qualunque luogo, con qualunque regime, c'è sempre qualcuno che sta sopra ed altri che stanno sotto.

La stessa idea sulla quale si basava il comunismo, l'uguaglianza, è una semplice follia, dimostrata dal totale fallimento di tutte le società del cosiddetto socialismo reale. Che piaccia o meno le persone non sono tutte uguali, tanto per una pura questione genetica, quanto per l'uso che ognuno fa del libero arbitrio. Esistono persone particolarmente intelligenti, intraprendenti, curiose, carismatiche. Ed esistono persone non particolarmente dotate, apatiche, che hanno bisogno di qualcuno che le guidi. Il comunismo, per sua natura, opprime le qualità migliori di ogni uomo, la sua intraprendenza, il suo desiderio di migliorare la propria condizione. Ma così facendo, sopprimendo gli egoismi, nega alla società nel suo complesso la possibilità di avvantaggiarsi dei progressi che questa minoranza è in grado di ottenere. Se è vero che chi produce un farmaco salvavita lo fa per arricchirsi, è anche vero che alla fine di quel farmaco se ne avvantaggiano tutti. Naturalmente c'è chi sostiene che lo stato può sostituirsi ai privati nella ricerca, nell'industria, e in ogni altra attività umana. Ma lo stato, è evidente a qualunque persona intelligente, non essendo mosso dal profitto ma dal più spudorato clientelismo, non seleziona mai i migliori, con il conseguente trionfo dell'inefficienza. Quando poi ad una persona viene garantita una serie di privilegi, ad iniziare dalla impossibilità di essere licenziati, a prescindere dall'impegno, dalla produttività, dall'onestà, dalla capacità, è chiaro che questa persona non avrà alcun interesse a fare del proprio meglio. Lo stato, come ogni tipo di collettivismo, attua la più nefasta delle politiche: non premia chi fa bene e non punisce chi fa male.

Questa politica, necessariamente attuata in ogni impresa privata, è l'unica che consente efficienza, profitto, crescita. La vera molla che muove il mondo, al di la di tutte le illusioni degli idealisti, è l'egoismo, ovvero il desiderio di migliorare il benessere proprio e della propria famiglia. La somma di tutti gli egoismi, se ben controllata dallo stato, produce quella ricchezza che viene poi distribuita in tutta la società, anche se in modo diseguale. Tenendo sempre presente che un povero in un paese ricco è sempre meno povero di un povero di un paese povero. Ergo, meglio la disuguaglianza quando anche i poveri possono vivere dignitosamente, che l'eguaglianza nella più assoluta miseria.

Anni fa ho letto un bellissimo libro: "Balzac e la piccola sartina cinese". Vi si narra la storia di una sartina al tempo del comunismo di Mao. Ebbene, leggendo quel libro ci si fa un'idea della estrema miseria che la presunta uguaglianza produce. I cinesi, a quel tempo, morivano letteralmente di fame. Quando i vertici cinesi hanno consentito a tutti di arricchirsi v'è stata una crescita sbalorditiva della ricchezza. Ed anche se si sono create enormi disuguaglianze, occorre essere onesti, ed ammettere che oggi i cinesi più poveri sono decine di volte meno poveri di 40 anni fa.

Certe idee, assolutamente strampalate, possono essere condivise dai giovani, in virtù della loro mancanza di esperienza, e dagli adulti privi di intelligenza. Molti giovani di allora, passato il periodo delle illusioni, hanno usato la politica per assicurarsi una qualche carriera. E pur non credendo più a certe idee, hanno capito che quella del comunista poteva essere una vera e propria professione, che poteva assicurare reddito e potere: tutto ciò che desidera un normale borghese. E così, incontrando oggi quei giovani di allora, che, in eskimo ed anfibi, volevano cambiare il mondo, mi accorgo che, come sempre, è il mondo ad aver cambiato loro. In fondo sono stati intelligenti, ed anche piuttosto furbi. Continuano a recitare la loro parte, anche se, caduto il comunismo, hanno cambiato nome.

Effettivamente anche se nel '74 vestivo gli abiti del comunista, in fondo ero, nei modi e nel pensiero, attratto più dal pensiero liberale, ed andavo certamente più d'accordo coi i miei amici figli di papà che con i compagni di partito. Fu proprio in quell'anno che con due amici, Rino e Lello, decidemmo di andare a Milano per conoscere il negozio di Fiorucci in via Torino, un vero mito tra i giovani. Ed in effetti il negozio ci apparve meraviglioso, un grande spazio pieno di colore e di trovate originali. Non acquistammo nulla, se non un poster da portare con noi a San Severo per testimoniare la nostra esperienza. Ci si trovava spesso in casa di amici ad ascoltare Cat Steven, Bob Dylan, i Genesis, i Pink Floyd. Non mancava mai, comunque, Lucio Battisti. Le sue canzoni di quegli anni hanno accompagnato la nostra adolescenza, con i suoi amori, i suoi sogni, i suoi progetti. Le note di Bella Senz'anima di Cocciante mi ricordano, invece, le serate in una cantina sotto un palazzo nei pressi della stazione ferroviaria. La cantina non aveva corrente e per l'illuminazione usavamo delle candele,  tanto che chiamammo questo nostro ritrovo Wax Candle Club. Per la musica ci si arrangiava con un mangiadischi a batteria. Peccato che mediamente ci fosse una ragazza ogni tre maschietti. I ricordi di quegli anni sono sempre meravigliosi, per chiunque. Perché, in fondo, ad essere belli non erano i tempi, ma la nostra età

Non so quanto credito si possa dare all'astrologia, ma debbo ammettere che le caratteristiche del mio segno zodiacale mi rappresentano in pieno. Sono un Leone, nato il 29 luglio del '58, e come ogni leone mi piace essere il re della foresta. Amo farmi notare, distinguermi, ed essere sempre alla ricerca di riconoscimento. Una cosa che non sopporto è di non essere notato. Ed effettivamente è raro che chi mi ha conosciuto si dimentichi di me. Sono una specie di elemento alfa, un capobranco, un leader. Probabilmente anche per questo non ho mai sopportato l'idea di non avere la disponibilità totale del mio tempo, e, più in generale, della mia vita. Sono irrimediabilmente inadatto al lavoro dipendente. E qui bisogna riprendere il discorso sull'uguaglianza. Si tratta, come ho già accennato, di una grande stupidaggine. Ognuno è ciò che è, sopratutto per un fatto squisitamente genetico. Esistono persone carismatiche ed esistono gregari, esistono persone entusiaste ed esistono persone apatiche, esistono ottimisti e pessimisti, coraggiosi e pavidi. Una parte del destino di ogni individuo è scritta nel suo DNA. Fortunatamente anche le scelte che si fanno ed il caso hanno la loro parte, e guai se così non fosse. Osservando un gruppo di persone è abbastanza facile rendersi conto che alcuni individui emergono rispetto ad altri, così come esistono persone che hanno una marcia in più.

Nel '76 trascorsi l'estate a Cattolica, dove trovai lavoro come barista. Fu una magnifica esperienza perché mi fece conoscere un mondo diverso rispetto a quello di San Severo. Una differenza che si concretizzava sopratutto nell'approccio epicureo alla vita che è tipico dei romagnoli. Gente sanguigna, godereccia, intraprendente. Anche li mi feci degli amici, quasi tutti di origine borghese. Mi parve subito evidente che alcuni di loro avevano quella marcia in più di cui parlavo prima. Uno di loro, figlio del sindaco della cittadina, divenne un grande matematico e finì ad insegnare in una università americana. Un'altro, figlio di un professore di diritto all'università di Ferrara, divenne un grande avvocato. Già allora, da come parlava e da come si esprimeva, mostrava una intelligenza superiore alla media, la quale, unita ad una certa educazione, apre le porte del successo. E a questo punto voglio di nuovo ricordare Andrea Pazienza. Chi lo ha conosciuto da ragazzo, al tempo in cui frequentava l'oratorio dei Cappuccini, si ricorda di una persona fuori dal comune: intelligentissima, esuberante, entusiasta, piena di talento. Una persona che si faceva sicuramente notare, emergendo dal gruppo per la sua personalità.

Certe qualità si ereditano, c'è poco da fare. Il figlio di una coppia molto intelligente sarà molto probabilmente altrettanto intelligente. Due genitori alti e belli avranno molto probabilmente un figlio alto e bello. Genitori dal carattere forte non potranno che generare figli dal carattere forte. Parliamo naturalmente di probabilità. Esiste sempre il cigno nero. In natura esiste una legge per la quale i migliori si attraggono. Una donna cerca un uomo dominante, possibilmente ricco, perché questa condizione assicura la sopravvivenza della prole. Un uomo, invece, cerca una donna bella, perché la bellezza è sinonimo di salute, condizione che assicura una discendenza sana. Tutto ciò accade inconsapevolmente, per un istinto primordiale. Ecco perché quasi sempre i ricchi sono belli, o almeno lo sono nella gran parte dei casi. Fortunatamente la natura fa anche i capricci, così che nascono tante ragazze belle anche da genitori non particolarmente dotati in quanto a bellezza. E nascono tanti ragazzi capaci da genitori mediocri.

Nei primi anni '70 a San Severo c'erano sei cinema: il Supercinema Marchitto, il Cicolella, l'excelsior, l'Ideal, il Patruno, il Giuseppe Verdi. Il migliore era senz'altro il Marchitto con il suo tetto apribile. Poiché la televisione disponeva di soli due canali in bianco e nero e trasmetteva appena 2 film a settimana, i cinema lavoravano molto e nei fine settimana erano strapieni, così che non era raro dover assistere alla proiezione stando in piedi. Una fitta nebbia dovuta al fumo pregnava tutte le sale, visto che allora era possibile fumare ovunque. La sala più scalcinata era il "Giuseppe Verdi" successivamente ristrutturata e denominata "Capitol". Al costo di un solo biglietto vi si proiettavano 2 pellicole, quasi sempre un western e un film di Maciste o simili. Nell'entrare, orde di lanzichenecchi cercavano di accaparrarsi i sedili non ancora vandalizzati, tra schiamazzi, urla e bestemmie. Chiaramente nessuna donna o persona per bene pensava di entrarvi. Il Patruno e l'Excelsior, che disponeva di un'arena all'aperto, erano specializzati nei film di Bruce Lee. Allora ero un grande appassionato di arti marziali, che praticavo assiduamente. La città di San Severo era divisa tra i sostenitore della scuola di Karate del maestro Matarante e quella di Kempo del maestro Masucci. Tra noi ragazzi si favoleggiava di una imminente sfida tra i due maestri per stabilire chi fosse il più forte.
Non ricordo bene come accadde che iniziammo a frequentare una palestra in cui si praticava Aikido che si trovava in un seminterrato di via Fortore, verso la periferia. In breve tempo divenne la sede della mia comitiva e subì una rapida trasformazione. Divenne una piccola discoteca, abusiva naturalmente, con tanto di cabine del DJ, bar, e delle sedute in muratura che correvano lungo il perimetro. Molto del materiale che ci occorreva lo rubavamo un po' in giro, in vari cantieri edili. Ciò che facevamo ci rendeva orgogliosi, anche se, con gli occhi di oggi, questa nostra discoteca faceva davvero cagare.

In piazza della repubblica esistevano delle grosse bacheche nelle quali venivano piazzati i cartelloni dei vari cinema con la reclame delle pellicole in programmazione. Per decidere quale film andare a vedere era inevitabile dare un'occhiata a questi cartelloni. La piazza, nei primi anni '70 era sempre viva e movimentata, come tutto il centro storico. Chi oggi ha meno di quarant'anni non può immaginare cosa era il centro di San Severo a quel tempo. Via Soccorso, via Recca, via Daunia, la Piazza, erano il vero centro commerciale della città. Le macchine circolavano liberamente, parcheggiando dove potevano. Su corso Gramsci si svolgeva il mercato giornaliero, dove si trovava un po di tutto. Il municipio, con i suoi uffici, attirava centinaia di persone ogni giorno, come la caserma dei Carabinieri, varie banche e molti bar. Insomma, era un vero brulicare di gente, con belle vetrine, insegne e quel meraviglioso caos che è l'essenza della vita. Poi qualche grandissimo coglione decise che le attività commerciali dovevano avere una superficie minima di 100 metri, così che il commercio si allontanasse dal centro. Poi qualche altro grandissimo coglione decise di chiudere al traffico alcune strade commerciali. Per farla breve: il centro storico è stato condannato a morte. Questo non è avvenuto solo a San Severo, ma un po' in tutta Italia. A parte le città turistiche che, grazie a qualche museo o monumento, hanno ancora un certo movimento nel centro, il resto delle città ha creato esclusivamente morte e degrado. Si è pensato che senza auto la gente avesse passeggiato tranquilla godendosi il centro storico. Questo non è avvenuto. Senza attività commerciali il passeggio diventa noioso, senza contare che si passeggia anche per incontrare gente. E se la gente va nei centri commerciali o nei mega negozi in periferia con tanto di parcheggio, passeggiando in centro non si incontra nessuno. Il colpo di grazia è stato dato dai parcheggi a pagamento, vera e propria rapina legalizzata.

 La conseguenza di queste politiche scellerate è stato l'abbandono del centro anche da parte della popolazione. Le nuove famiglie che si andavano formando preferivano abitare in appartamenti moderni con tanto di posto auto, o comunque con la possibilità di parcheggiare comodamente. Le case abitate dai loro genitori, alla loro morte, restavano vuote e praticamente invendibili, se non a prezzi irrisori, salvo alcuni palazzetti più prestigiosi. E così queste case sono state locate a disgraziati ai quali nessuno avrebbe affittato una casa decente. Extracomunitari, poveracci, debosciati di ogni tipo, hanno popolato il centro, rendendolo non solo commercialmente morto, ma anche piuttosto degradato. Basti pensare che in tutto il centro non esiste più un solo negozio di generi alimentari ne un solo parrucchiere. Questo stato di fatto è evidente a tutti, e ogni tanto qualche politico da strapazzo  lancia l'idea di rivitalizzare il centro storico. Si tratta perlopiù di idee strampalate di chi pensa che spendendo un po' di soldi si ottenga ciò che si desidera. Sistemare l'asfalto, cambiare l'illuminazione, puntare sull'arredo urbano. Ma nessuna fioriera e nessuna panchina sostituiranno mai le attività capaci di attrarre flussi di persone. Basti pensare che ultimamente anche il vescovo, dopo le lamentele dei parroci della diocesi costretti a lasciare l'auto lontano dal palazzo vescovile, ha trasferito tutti gli uffici in una sede periferica, facilmente raggiungibile e con comodi parcheggi. Se a tutto questo aggiungiamo il commercio on line, ci rendiamo conto che per il centro storico non c'è speranza.

Nel '73, finita la scuola media, mi iscrissi alle superiori. Sbagliare, a quell'età, è quasi la norma, ed io sbagliai alla grande. Mi iscrissi alla ragioneria, per la semplice ragione che vi si iscrissero alcuni miei amici. Mentre amavo moltissimo la tecnica, l'architettura e le materie scientifiche. La scuola ideale sarebbe stata l'istituto per Geometri. Ma per fare cazzate ho sempre avuto un talento particolare infatti, nonostante il diploma, nella vita ho fatto altro rispetto a quanto ci si poteva aspettare dai miei studi. Dei miei compagni di classe molti sono finiti in banca. La cosa curiosa è che costoro sapevano da sempre che quello sarebbe stato il loro destino. Il posto li aspettava, sebbene non fossero propriamente delle cime, anzi! Di molti dei miei compagni di allora ho perso le tracce, non so cosa abbiano poi fatto. Quello che so con certezza è che nessuno di loro, nella vita, si è distinto per aver fatto una brillante carriera o per essere diventato qualcuno. Credo che questo sia dovuto anche al fatto che, a parte un paio di elementi, il livello sociale della classe era abbastanza modesto.

Questi miei compagni di scuola impiegati in banca fanno parte della vastissima categoria dei piccolo borghesi, di cui fanno parte anche gran parte degli impiegati pubblici, che tende a sopravvalutarsi. Una sterminata pletora di mediocri, culturalmente insignificanti, dalla vita grigia ed opaca, dal linguaggio povero e dalle idee banali. Persone dal reddito garantito che, non dovendo confrontarsi con il libero mercato, unico implacabile giudice, credono di valere molto più di quel che valgono, e passano la vita lamentandosi di non essere valutati per le loro reali capacità, senza avere comunque il coraggio di mettersi in gioco, licenziandosi e intraprendendo nuove strade. Giustificano questo loro comportamento con mille scuse, banali ed inconsistenti, mentre non sono altro che dei vigliacchi.  E mentre continuano a restare fortemente attaccati alla mammella di chi gli garantisce uno stipendio, inveiscono contro tutti coloro che si danno da fare ed ottengono successo e riconoscimento. Diventa davvero difficile spiegare ad un impiegato di banca che il lavoro che svolge è di una banalità sconcertante, e che qualunque persona di normale intelligenza lo potrebbe svolgere dopo appena una settimana di addestramento, mentre il lavoro che svolge un meccanico o un idraulico è di una complessità tale che non può essere svolto se non dopo anni di pratica. Infatti il lavoro di un cassiere può essere svolto da un semplice sportello automatico, mentre il lavoro di un idraulico, almeno per i prossimi 20 anni, non può che essere svolto da una persona in carne ed ossa. E questo vale per tutti i lavori stupidi e ripetitivi svolti da una buona percentuale dei pubblici dipendenti. E cosa dire dei dirigenti pubblici? Cosa determina le loro carriere se non le appartenenze politiche ed i relativi traffici. Un dirigente di un'azienda privata se fa carriera lo deve esclusivamente alle sue capacità ed ai risultati che raggiunge. C'è un padrone che paga di tasca propria, e non lo fa senza una congrua contropartita in termini di risultati. Ma chi decide della carriera di un dirigente non paga di tasca propria, e quindi non è costretto a scegliere in base alle capacità o ai risultati. Anche questi dirigenti sono dei borghesi, sebbene facciano parte della peggiore borghesia, quella ignorante, presuntuosa e parassitaria. Quella parte della borghesia che non apporta nessun vantaggio al progresso della società.

In particolare buona parte della borghesia meridionale è composta da individui fortemente legati allo stato, dal quale ricava redditi, privilegi e potere. Si tratta del retaggio dello spirito controriformista che caratterizza la cultura meridionale. In fondo fino all'annessione del regno di Napoli al regno d'Italia la struttura sociale del sud Italia era sostanzialmente di tipo feudale. La classe dirigente era composta in prevalenza da una nobiltà parassitaria legata alla proprietà fondiaria di tipo latifondista. Il nobile, in quanto tale, non lavorava, ne avrebbe perso in dignità e in onore. Al massimo poteva esercitare qualche ufficio ben remunerato per conto dello stato, o sfruttare qualche monopolio, sempre per concessione reale. Mai avrebbe intrapreso un commercio o un'industria. Molto spesso questa nobiltà, per mantenere le apparenze e guadagnare prestigio, spendeva somme superiori alle rendite di cui godeva, ed era costretta ad alienare il proprio patrimonio un pezzo per volta. Giunta alla miseria cercava di rimettersi in sesto attraverso un buon matrimonio con chi aveva denaro e cercava un titolo.

L'idea che solo attaccati alla macchina pubblica si possa godere di potere, redditi e prestigio, è tuttora presente nella mentalità meridionale. E' questa la ragione per la quale la gran parte dei laureati cerca il pubblico impiego. Da un lato si ottiene una sicurezza economica, dall'altro si ottiene prestigio sociale. Un avvocato, un commercialista, un ingegnere, cercheranno di fare gli insegnanti e si faranno chiamare professore, e poi da quella posizione cercheranno di ottenere altre entrate, sempre attraverso lo stato. Si spera in qualche perizia di ufficio, in un incarico come curatore fallimentare, in un incarico come avvocato d'ufficio. Un po lo stesso discorso vale per notai e farmacisti. Anche questi borghesi godono della protezione pubblica, in quanto lo stato garantisce loro l'assenza di concorrenza, ovvero una concorrenza limitata. Questa borghesia è quella che non apporta alcun vantaggio al progresso economico e culturale della società. E' composta in prevalenza di mediocri, che alla fatica di confrontarsi con il mondo preferisce la sicurezza del caldo ventre statale. Unitamente alla folta schiera dei dirigenti pubblici, essa rappresenta la quasi totalità della nuova borghesia sanseverese. Dove sono le dinastie imprenditoriali? Dove sono gli intellettuali e gli innovatori? Nulla, non ce ne sono. Il borghese che si mette in gioco, rischia, crea innovazione, si relaziona con il mondo è completamente assente. Da anni sono arrivato alla conclusione che il vero dramma del sud è la presenza di questo tipo di borghesia che trae prestigio e potere solo ed esclusivamente attraverso la protezione dello stato.

Tornando alla San Severo degli anni '70 la memoria mi riporta una serie di immagini dai meravigliosi colori. La televisione era ancora in bianco e nero, ma il mondo reale era splendidamente colorato, mentre oggi, con la televisione a colori, il mondo appare grigio. Ed effettivamente le cose sono davvero cambiate, sopratutto se prendiamo come riferimento la libertà. Da allora ogni anno sono aumentate le norme, le restrizioni, i controlli, i regolamenti. Ogni anno qualche genio ha pensato che occorresse una nuova legge per regolare anche le cose più stupide. E ad ogni nuova legge una piccola parte della libertà individuale è andata in fumo. Si è perso il senso della misura, credendo che fosse nell'interesse di tutti sottrarre ai singoli la possibilità di scegliere comportamenti riguardanti prevalentemente  la sfera personale. Il personale ha smesso di esistere, affermando il principio che anche il personale è pubblico, e che non esistono comportamenti individuali che non abbiano riflessi sulla collettività. Ma sottraendo all'uomo il libero arbitrio, ovvero la facoltà di scegliere il bene o il male, si distrugge l'unica facoltà che distingue gli umani dal resto del mondo animale.

Un grande fratello invisibile sta prendendo possesso delle nostre vite, attraverso la conoscenza dei nostri dati, delle nostre abitudini, delle nostre idee, dei nostri movimenti finanziari. E noi, grandissimi coglioni, accettiamo passivamente questa nostra riduzione in schiavitù. Una schiavitù senza catene apparenti e che ci inganna facendoci credere di essere liberi, è la peggiore delle schiavitù, perché subdola. E la gran parte della popolazione viene plagiata attraverso i media, affinché sostenga ogni iniziativa liberticida dei governi, facendo credere che tali iniziative siano prese nell'interesse di tutti. E' così quando un governo sostiene che occorre abolire il contante per lottare contro gli evasori o contro la criminalità,  tutto il popolino plaude felice a quest'idea, senza rendersi conto delle tragiche conseguenze che l'attuazione di queste idee produrrebbe. E' pur vero che il popolino non sa cosa farsene della libertà, purché gli vengano garantiti panem et circenses. E così, dopo l'abolizione del contante, faranno credere che tracciare gli spostamenti di ogni persona, attraverso un microcip o qualche altra diavoleria, produrrebbe il quasi azzeramento dei reati. E tutto il popolino coglione griderà: si, bene, in culo ai delinquenti, vogliamo essere tracciati!

Ero e rimango del parere che il suffragio universale sia servito soltanto a dare il voto a una sterminata massa di persone talmente stupide ed ignoranti da poter essere facilmente manipolate, tanto da spingerle a votare i peggiori demagoghi. E così la gran parte dei governi democratici è l'espressione di una maggioranza numerica composta dalla parte meno significativa della popolazione. Se uno vale uno, vuol dire che il voto di uno zingaro che passa la vita commettendo reati, non pagando un euro di tasse e pretendendo sussidi e case popolari, vale come quello di un cittadino onesto che lavora, produce, paga le tasse e rispetta la legge. Il voto di un debosciato senza arte ne parte, pluri pregiudicato, che vive di espedienti e di pubbliche elargizioni, vale come quello di uno che ha studiato ed è diventato un ottimo professionista. Mi pare che si tratti di assoluta follia. Ma il popolo è talmente plagiato da mostrare orrore alla sola idea che il mondo che abbiamo creato non sia il migliore dei mondi possibili.

Siamo arrivati al punto in cui la popolazione è stata divisa in due categorie. La prima è composta da gentaglia alla quale garantire una serie di diritti e nessun dovere, mentre la seconda è composta da individui a cui sono garantiti pochissimi diritti e moltissimi doveri. E così uno che lavora viene a tal punto tassato da lasciare nella sua disponibilità un reddito spesso inferiore a quello di chi, pur non lavorando,  vive di sussidi pubblici. E la follia arriva a tal punto che chi paga già le tasse è costretto a pagare dei tiket per avere prestazioni erogate invece gratuitamente a chi non paga nulla. La chiamano giustizia sociale, mentre io lo definisco semplicemente un abominio.

Mia nonna abitava in via Soccorso, e la sua casa era il punto di ritrovo di tutta la famiglia. Era sempre piena di gente, e, sopratutto in inverno,  era il vero ricovero di tutti noi nipoti, allora adolescenti. Seduti di fronte al televisore, non mancavamo mai di guardare Happy days, di cui tutti quelli della mia generazione serbano un gran bel ricordo. Ad aumentare il nostro desiderio di emulazione contribuì anche il film American Graffiti. Purtroppo dimenticavamo di non essere in America ma a San Severo. E così, piuttosto che frequentare un fast food, ancora di la da venire, passavamo le piovose serate invernali in una sala giochi. Quella più frequentata era sul viale della villa. Sempre affollatissima, con 4 calciobalilla e 2 flipper, e con il titolare che di tanto in tanto lubrificava le stecche. Ci andava poi alla grande se riuscivamo anche a comprare un pezzo di pizza alla pizzeria romana. Qualche volta si andava al cinema, a vedere un film di terza visione, al Patruno o all'Excelsior, più raramente all'Ideal. Cercavamo di essere aggiornati sulle novità musicali acquistando e leggendo Ciao 2001, a quel tempo un vero e proprio giornale di culto. Via Soccorso, la strada che taglia il centro storico da Porta Foggia a Piazza Castello, era piena di negozi di ogni tipo, e brulicava di gente ad ogni ora. Verso la piazza c'erano i negozi più prestigiosi, alcuni dei quali oggi scomparsi. Altri prestigiosi negozi stavano in Via Tiberio Solis. Tra pedoni, auto in movimento, auto parcheggiate, vetrine illuminate, era un gran bello spettacolo, lo spettacolo della vita, con il suo meraviglioso disordine, la sua anarchia, i suoi imprevisti, i suoi entusiasmi. Oggi, grazie alla folle idea di regolamentare ogni aspetto della vita umana, la vita umana si è spenta. Il centro di San Severo è diventato un cimitero, e a quelli come me che lo ricordano come era negli anni '70, viene da piangere.

Uno dei disastri della nostra modernità lo dobbiamo alla categoria degli urbanisti, i quali, dimentichi della storia e delle nostre tradizioni, si sono arrogati il diritto di pianificare le nostre città secondo l'idea che ogni zona dovesse avere una natura omogenea. Hanno pianificato zone residenziali, zone commerciali, zone artigianali e via dicendo. E così le zone residenziali sono quasi sempre prive di servizi e di vita, mentre le zone commerciali, dopo la chiusura dei negozi, diventano lugubri ed angoscianti. Se le nostre città un tempo erano davvero belle e vivibili, è perché tutto era mischiato, e tutto era centro. I palazzi dei ricchi, le case del popolo, le botteghe artigiane, i negozi, gli uffici, i mercati, le chiese, tutto era mischiato nel gran calderone della vita. Pensate alla bellezza di un mercato, con il suo disordine, le sue grida, la gente che si incontra, i colori, i profumi, il venditore che vi riconosce. Negli anni '70 il mercato di San Severo si svolgeva su corso Gramsci, da piazza castello alla Camera del Lavoro. Era un mercato molto assortito, pittoresco e conveniente. I soliti geniacci hanno deciso che al suo posto dovesse sorgere un viale alberato con una serie di palme e delle aiuole. E così il mercato, molto ridimensionato, è stato confinato nella piazza della Camera del Lavoro.

Del fatto che la città di San Severo, a partire dagli anni '90, abbia subito un costante degrado ne ho già parlato. Uno dei segni di questa caduta libera verso il più bieco provincialismo e verso il degrado morale ed intellettuale di una intera cittadinanza si può cogliere da tanti fattori. Il numero delle mostre d'arte è uno di questi. Nel corso degli anni '70 le mostre di pittori locali erano molto frequenti. Il foyer del Teatro Comunale veniva spesso utilizzato a questo scopo, almeno fin quando non venne aperta la galleria comunale dedicata al maestro Schingo, la dove c'era la vecchia caserma della gendarmeria, tra il teatro e la chiesa di San Lorenzo. Il comune organizzò anche una biennale d'arte, coinvolgendo artisti provenienti da tutta Italia. Ricordo una edizione molto bella che si svolse nel chiostro del Complesso delle Benedettine. Purtroppo il destino dell'arte e della bellezza si accompagna sempre a quello dell'economia. Degrado economico e degrado culturale sono indissolubili, e chi sostiene il contrario o mente o non capisce un cazzo.

Infatti, se volete vedere la bellezza, non potete che recarvi nelle città che un tempo sono state ricche e potenti. Perché per costruire una bella chiesa o un bel palazzo o per chiamare artisti di grande livello, occorrevano, allora come oggi, soldi, tanti soldi. Nobili, banchieri, commercianti, armatori, cardinali e papi, signori e principi, per accrescere il proprio prestigio, finanziavano opere realizzate dai migliori architetti ed artisti. Ancora oggi persone molto ricche istituiscono fondazioni che raccolgono ed espongono opere d'arte di altissimo livello. Pensare di trovare la bellezza in città che non hanno avuto una grande storia ne momenti di particolare prosperità è pura illusione. La bellezza si può trovare a Siena, Lucca, Urbino, e non a Campobasso, Matera o Cosenza. Perché le prime tre città hanno avuto periodi di grande splendore e sono state centri culturali di livello europeo, mentre le seconde tre sono state città povere e storicamente insignificanti. Immagino che gli abitanti di queste città si indignino, sostenendo che anch'esse hanno una storia, senza capire che non tutte le storie sono prestigiose alla stessa maniera. La storia dei Medici o dei Torlonia non può essere paragonata alla storia di famiglie di miserabili contadini analfabeti. Non esiste piccola e grande città in cui non vi sia uno studioso di storia locale che non abbia pubblicato un libro in cui si narrano le vicende storiche di quella città. Libri pieni di fatterelli insignificanti che vengono enfatizzati allo scopo di accrescere l'importanza di cose che in verità di importanza ne hanno davvero poca. Sono storie che interessano un pubblico locale, e che non hanno avuto alcuna influenza al di fuori del contesto in cui si sono svolte.

Un altro errore che si commette è quello di confondere il pittoresco con il bello. Matera, ad esempio, è sicuramente una città pittoresca, ma certamente non bella. Perché è difficile trovare la bellezza nei famosi Sassi, emblema della peggiore miseria e del più cupo degrado umano. Tuguri scavati nella roccia, in cui uomini e bestie convivevano nel più assoluto squallore, non possono in nessun modo essere considerati belli. Suggestivi e pittoreschi, senz'altro, ma non belli. Lo stesso discorso vale per una città come Lecce, definita la Firenze del Sud. L'ho visitata un po di tempo fa, e debbo dire che la mia delusione è stata totale. Paragonarla a Firenze è una pura bestemmia, perché la distanza tra queste due città è incommensurabile. Il centro storico di Lecce è carino, nulla di più. L'architettura e le opere d'arte presenti sono di valore decisamente scarso, ed il famoso barocco leccese non può essere paragonato al barocco napoletano o romano. E la ragione di tutto questo è semplice: mentre Roma o Napoli erano delle importanti capitali europee, in cui confluivano immense ricchezze, Lecce era un anonima città di provincia che viveva di povera agricoltura, e nella quale anche le famiglie nobili erano, tutto sommato, miserabili.  La grande città, con le sue ricchezze, attrae le migliori menti creative. Perché l'opera di qualunque artista, in qualunque campo operi, per poter sviluppare appieno le proprie potenzialità, ha bisogno di un mercato disposto ad investirvi fior di quattrini, e, più ancora, di quell'apertura mentale che solo una grande metropoli può offrire. Il seme del genio non germoglia dappertutto. La provincia non offre il terreno adatto a coltivare l'eccellenza, l'innovazione, la ricerca.

In ogni caso alla bellezza ci si educa, nel senso che il bello deve essere una costante della vita di ognuno. La bellezza va frequentata fin dall'infanzia. Solo allora la ricerca ed il piacere del bello diventano istanze irrinunciabili. Crescere in una bella casa, frequentare parenti ed amici che hanno  case arredate con gusto, vivere in un quartiere e in una città belle, produrranno in un individuo l'istintivo rifiuto per il brutto, il volgare, il trasandato, il degradato. Mentre chi cresce e vive circondato dalla bruttezza, vi sarà a tal punto assuefatto da non provarne alcun fastidio, e riterrà, anzi, che quella sia la normalità. Comunque, la bellezza è un valore assoluto, che rende la vita più piacevole. Ed è un valore ovunque essa si manifesti: in una bella donna, in un ristorante, in una bella macchina, in un bel palazzo, in un bel vestito. Se ne avessi il potere, inserirei l'educazione alla bellezza tra le materie scolastiche. Rimane comunque il fatto che la ricerca del bello non è una prerogativa universale, e che gran parte della popolazione non soffre minimamente per la sua mancanza, a conferma del fatto che il mondo che conta è composto da una minoranza della popolazione. Se dovessimo dare credito alle teorie di Pareto, il 20% della popolazione produce l'80% della ricchezza totale. Ed io inserirei in questo 80% anche l'arte, la ricerca, la bellezza, la cultura, la scienza. La storia del mondo è la storia di ciò che è accaduto all'interno di una minoranza, composta da coloro che detengono potere, denaro e conoscenza. Il popolo era e rimane un gregge che segue il capobranco, inconsapevole del proprio destino, e tenuto a bada da cani pastore.

Una cosa che ricordo con una certa nostalgia è il centro culturale che fu aperto, all'inizio dei '70, all'inizio di via Teresa Masselli, al piano terreno del primo palazzo sulla sinistra partendo dalla villa. Disponeva di una biblioteca abbastanza fornita, di una emeroteca e di una discoteca. Io la frequentavo con una certa assiduità, perché già da allora ero attratto dai libri, particolarmente da testi di divulgazione scientifica. L'uomo era da poco sbarcato sulla luna, ed io, ragazzino, fantasticavo sull'universo e sullo sviluppo della tecnologia. Sul mercato si affacciavano i primi computer, ed io partecipai ad un corso professionale per programmatori in linguaggio COBOL. Usavamo un computer sistema 3 della IBM, che occupava una intera stanza, con una serie di memorie a nastri magnetici che erano dei veri e propri armadi, mentre i dati venivano inseriti per mezzo di schede perforate. Quella macchina gigantesca aveva una capacità di calcolo infima rispetto ad un PC dei nostri giorni. Davvero si era alla preistoria dei computer e se qualcuno ci avesse detto dove l'informatica e l'elettronica sarebbero arrivati in 50 anni, lo avremmo fatto ricoverare. Naturalmente non esistevano i telefoni cellulari, ne qualcuno ne sospettava la possibilità, se non scrittori di fantascienza. Lo stesso telefono di casa non era alla portata di tutti, e molte famiglie ne erano sprovviste. Di internet è inutile parlarne. A proposito dei telefoni, occorre ricordare le quasi scomparse cabine telefoniche, che funzionavano a gettoni, mentre gli stessi gettoni erano moneta corrente, utilizzata per dare il resto. La scarsità di monete arrivò a tal punto che nel 76 le banche emisero i miniassegni, assegni in miniatura del valore di 50 e 100 lire utilizzati ed accettati da tutti, sebbene fossero fuorilegge. Tra il 73 ed il 74, con l'esplosione del prezzo del barile di petrolio, il governo italiano istituì misure di austerity volte a ridurre il consumo di energia. I locali pubblici furono costretti a chiudere prima, le insegne luminose restarono spente, la domenica la circolazione delle auto fu dapprima proibita, per poi essere consentita a targhe alterne. A quel tempo non avevo ancora ne patente ne auto, per cui non subii le conseguenze di queste limitazioni.

A caratterizzare gli anni della mia adolescenza ci fu anche il fenomeno delle radio libere. Finalmente, dopo decenni, cessò il monopolio pubblico. A San Severo nel '75 nacque radio Zuma, ed ebbe molto successo radio Apricena International. Avevo un amico appassionato di elettronica, che costruì un piccolo trasmettitore in modulazione di frequenza con il quale iniziammo le nostre trasmissioni. La potenza del segnale era scarsa, ed a malapena copriva il quartiere. Ma la nostra soddisfazione, nonostante tutto, fu grande. Oltre a trasmettere musica le prime radio libere furono ampiamente utilizzate per dedicare canzoni in occasione di compleanni e onomastici, o tra innamorati. Nel corso degli anni tutte le piccole radio che sorsero furono costrette a chiudere sotto il peso di insostenibili diritti d'autore. La stessa cosa avvenne per le tantissime cantine che fungevano da discoteche un po' alla carlona. Le normative ed il fisco hanno ucciso tutto, lasciando spazio solo a strutture fortemente capitalizzate, le uniche capaci di galleggiare nell'impetuoso mare della burocrazia e dello sciacallaggio fiscale. Ai ragazzi di oggi non resta che rifugiarsi nella stupidità del telefonino, unico territorio lasciato libero alla fruizione di tutti. Ma nulla è gratis, sopratutto oggi, e quindi l'uso degli smart phone si paga cedendo gratuitamente le informazioni che riguardano la nostra vita, e facendoci condizionare, anche se inconsciamente, da tutta una serie di messaggi, spesso subliminali, e altrettanto spesso apparentemente innocui. Una schiavitù subdola, proprio in virtù del fatto che pochi si rendono conto di aver regalato la propria vita ad altri.

Comunque la si viva, la giovinezza è sempre bella, e di essa ognuno serba un buon ricordo. In genere l'adolescenza è il biglietto da visita di quel che sarà la vita futura. Chi ha avuto un'adolescenza intensa, piena di interessi, vissuta con la giusta e doverosa dose di incoscienza che quell'età pretende, certamente avrà una vita altrettanto intensa. Anche se non tutti raggiungeranno il successo, sempre che si possa definire con esattezza cosa esso sia, la vita non scivolerà in quella mediocrità nella quale la gran parte delle persone vive. Come ho già detto, molti dei miei compagni di scuola erano dei mediocri, privi di slanci e di entusiasmi, ligi al rispetto delle regole. Sono i luigini, come li chiamava Carlo Levi, piccoli borghesi dal posto fisso e dallo stipendio sicuro, prevalentemente ignoranti ma inconsapevoli di esserlo, convinti che un titolo di studio sia sufficiente a poter pontificare con sicurezza su qualunque argomento. Questa accolita di mediocri si autoincensa a vicenda, e si illude di contare qualcosa, mentre in realtà sono la spazzatura sociale, non migliore del più disgraziato popolino. Negli anni '70 questa classe sociale contava ancora qualcosa, perché la gran parte delle persone prive di un titolo di studio davo loro importanza. E così un impiegato delle poste, un vigile urbano, un impiegato di banca, godevano di un certo prestigio sociale e venivano trattate con riguardo. Questa specie di timore reverenziale caratterizzava spesso persone che, pur non avendo studiato, erano dotate di quella intelligenza brillante che consentiva loro di avere successo nel loro mestiere o nelle loro attività imprenditoriali. Un successo sia in termini di riconoscimento sociale che di reddito. Oggi, grazie a Dio, non è più così. La categoria sociale dei piccoli imprenditori ha preso consapevolezza del proprio valore, ed ha assunto quel senso di superiorità, assolutamente giustificato, nei confronti dei mediocri del pubblico impiego. Parlo, chiaramente, dell'imprenditore di successo, che muove milioni di euro e conduce una vita agiata.

















Questa mattina mia moglie, portandomi il caffè, mi ha svegliato, interrompendo un sogno molto particolare. Non so se avete presente quei sogni che vorreste continuassero, tanto sono piacevoli. Ebbene, stavo sognando la Mangano, Silvana Mangano Mentre sorseggiavo il caffè mi beavo a ripensare le scene del sogno, e la cosa che mi ritornava alla mente con maggiore frequenza era il didietro di questa stupenda signora. Un bel didietro, solido, sostanzioso, quasi altero. Nelle sue misure oramai desuete mi pareva di leggere i canoni di un mondo molto diverso da quello attuale. Il confronto con le anoressiche mannequin nostre contemporanee fu inevitabile, e mi condusse con prepotenza ad un confronto tra due epoche, quasi che il didietro delle donne fosse l'allegoria di una società, e racchiudesse nelle sue misure la chiave di lettura di un ben più vasto orizzonte sociale. Il didietro della Mangano, nelle sue forme abbondanti e rassicuranti, era il coronamento di due gambe altrettanto solide, su cui posava con la stessa grazia con la quale una trabeazione ben proporzionata posa sulle colonne di un tempio classico. Includeva, nelle sue rotondità, quell'insieme di valori condivisi da ogni ambito della società coeva. L'economia, il lavoro, la famiglia, avevano anch'essi qualcosa di concreto, di solido, di stabile. Il didietro della manniquin è inconsistente, e poggia su due gambe decisamente precarie. La concretezza lascia il posto all'immaginazione, al virtuale. Ed effettivamente questa fase terminale di una certa modernità è caratterizzata dall'annichilimento di valori quali la solidità e la concretezza, e dall'esaltazione del futile, del virtuale, della fuffa. L'apoteosi di questa vera e propria rivoluzione si è verificata nel momento in cui la finanza ha soppiantato la produzione. Le ragioni della finanza hanno la priorità sulle ragioni dei popoli. E mentre i culi hanno perso consistenza e sostanza, anche la dignità delle persone ha subito la stessa sorte. Tutto questo mi rattrista molto, e cerco di mitigare questa tristezza ripensando al sogno di questa notte.

E' sterminata la quantità di persone che si lamentano della modernità, dell'inquinamento, dello stress, dei farmaci, e di tutto quello che, in fondo, ci consente una vita molto migliore rispetto a quella di un tempo. A casa ho il televisore, ma lo guardo raramente. Trovo le trasmissioni semplicemente idiote e diseducative. Ma non sto a lamentarmi, perché se esiste una cosa che la modernità ci ha regalato, è la possibilità di scegliere. Ho scelto, quindi, di non guardare la TV, semplicemente. Quando qualcuno si lamenta della qualità dei cibi, dovrebbe semplicemente tener presente che nessuno gli vieta di produrre da se i propri alimenti. Costa fatica, è vero, tanta fatica. E forse è per questo che, dopo essersi lamentati, si acquistano e si consumano i cosiddetti cibi spazzatura. Dimenticano, gli idioti, che se volessimo produrre i cibi senza l'ausilio della chimica, dovremmo eliminare almeno 5 miliardi di persone, perché la produzione crollerebbe, ed il prezzo degli alimenti salirebbe alle stelle. Lo stesso discorso vale per i farmaci. Nessuno obbliga a curarsi con i prodotti dell'industria farmaceutica. Quelli che elogiano la cosiddetta medicina alternativa lo fanno fin quando sono in buona salute. Quando, poi, si ammalano, usano sicuramente i farmaci, senza dei quali finirebbero davvero male. Elogiare la vita a contatto con la natura, il bel mondo passato (che non è mai esistito) quando lo si fa da un appartamento spazioso, luminoso, sano, antisismico, con acqua corrente, idromassaggio, aria condizionata, con internet e telefonino, il frigo pieno di ogni ben di Dio, materassi tecnologici, scarpe comode, ed un SUV nel garage, è facile: Ma si tratta di un atto da vigliacchi. Si tratta degli stessi coglioni che non vogliono il gasdotto, l'elettrodotto, la centrale elettrica, la discarica, il rigassificatore, l'autostrada, la ferrovia. Dicono di no a tutto. Intanto vogliono l'acqua corrente, l'automobile, l'energia elettrica, i treni comodi, ed ogni altro strumento della modernità. Per fortuna il mondo va avanti, nonostante la presenza di questi pagliacci. La speranza di vita aumenta, insieme alla qualità stessa della vita. Oggi, un povero disoccupato, ha una vita migliore di quella che aveva un membro della classe media di 60 anni fa. Questi sono fatti incontestabili. Il mondo va avanti comunque, senza tener conto della volontà del popolo, il quale, oggi come ieri, non conta un cazzo, per fortuna.

Alla festa del paese c'era una bella torta dalla quale si potevano ricavare 12 porzioni soddisfacenti, e poiché i partecipanti erano 12 tutti furono certi che  sarebbe bastata per tutti. Si scoprì, invece, che qualcuno rimase senza la sua porzione, mentre qualcun altro ne ebbe giusto un assaggio. Fu allora che il capo del villaggio prese la parola: "amici" disse, "è evidente che la torta non basta per tutti. La prossima volta occorre farne una più grande." Infatti la volta successiva fu fatta una torta più grande. Ciò nonostante anche in quella circostanza qualcuno ne  rimase senza e qualcun altro ne ebbe appena un assaggio. Per placare il serpeggiante malumore il capo del villaggio prese nuovamente la parola: "è evidente, cari amici, che la torta è insufficiente per tutti. E questo accade perché lavoriamo poco, e non produciamo abbastanza ricchezza per fare una torta adeguata a soddisfare le esigenze di tutti."I villani, allora, si impegnarono a lavorare di più, e questo consentì di produrre una torta ancora più grande. Ma anche in questa circostanza, nonostante che la dimensione della torta fosse abbastanza grande da poterne garantire 2 fette a persona, alcuni ne restarono senza, mentre altri ne ebbero appena un assaggio.Allora uno dei villani, abbastanza sveglio da dubitare delle parole del capo del villaggio, dopo profonde meditazioni, arrivò alla conclusione che, se qualcuno riceveva una porzione di torta troppo piccola, qualcun altro ne riceveva una troppo grande. Pensò quindi di sentire il parere di un vecchio che viveva lontano dal villaggio, e che passava per una persona molto saggia.Quando fu al suo cospetto gli espose i fatti, ed aspettò trepidante le parole del vecchio saggio."Figliolo" gli disse "è ora che tu apprenda il primo postulato della natura umana."

PER QUANTO GRANDE POSSA ESSERE LA TORTA, CI SARA' SEMPRE QUALCUNO CHE NE AVRA' POCHISSIMA, E QUALCUN ALTRO CHE NE AVRA' TROPPA. E QUELLI CHE NE AVRANNO TROPPA TI IMBROGLIERANNO, RACCONTANDOTI CHE OCCORRE LAVORARE DI PIU', SEMPRE DI PIU'. E PIU' LAVORERAI, E PIU' GRANDE  SARA' IL DIVARIO TRA LA TUA PARTE DI TORTA E LA LORO.

Ero adolescente a metà degli anni settanta, e li ricordo come un periodo magnifico, sopratutto se paragonato a quello attuale. E' pur vero che la freschezza, l'incoscienza e l'energia del ragazzo che ero, hanno certamente alterato in meglio il ricordo di quel mondo. Ma è indubbio che sia stato un periodo di grandi speranze, quasi sempre tradite. La sensazione diffusa era che le cose, di anno in anno, sarebbero state sempre migliori. E questo generava ottimismo ed intraprendenza. Ed in effetti gli anni settanta sono stati quelli che hanno proiettato la mia città nella modernità. Una modernità che si percepiva da tante piccole cose, come la creazione di un polo industriale del settore legno arredo che dava lavoro a migliaia di persone e la cui espansione pareva inarrestabile. O come la nascita di tanti nuovi negozi e locali, che facevano il verso a quelli delle grandi città, e di cui eravamo orgogliosi. Il" Neogel" con la sua sala da thè ed il roof garden, oppure il "London Bar", che ambiva ad ospitare nomi importanti dello spettacolo. Mentre la borghesia cittadina creava e frequentava lo "sporting club", i giovani affittavano locali malmessi e cantine per creare dei club in cui riunirsi. Si ascoltava Battisti, De Gregori, I Pink Floid, Cat Stivens, vivendo i primi amori e le prime effusioni sessuali che raramente andavano oltre quei limiti che oggi paiono ridicoli. Sulla scia del '68 esisteva una netta separazione tra fascisti e comunisti, che si esercitava anche nel modo di vestire. Eschimo, anfibi e maglione largo per i comunisti; Lacoste, Levis e Ray Ban per i fascisti. E questa separazione si esercitava anche nell'occupazione degli spazi pubblici. Il viale della villa, mitico luogo dello struscio, era nettamente diviso tra i due lati, tanto che la frequenza dell'uno o dell'altro rappresentava un modo esplicito di manifestare la propria visione del mondo. E' in questo contesto che si svolge l'epopea della "Cestistica", piccola squadra di basket che nel volgere di pochi anni brucia le tappe e raggiunge traguardi inaspettati. Quelli della mia generazione non possono dimenticare le epiche gesta dei nostri cestisti nello straripante pallone pressostatico. E non possono neanche dimenticare l'orgoglio di tutta la comunità per i risultati della squadra che, in fondo, non era che la metafora dei nostri successi e delle nostre ambizioni. Attraverso la "Cestistica" ci pareva di entrare a pieno diritto nel mondo che conta, nella modernità, nel benessere. Ogni volta che la squadra batteva club di città importanti, e spesso lontane, ci pareva di scrollarci di dosso una piccola parte del nostro provincialismo. Si trattava di un'illusione, è vero, ma ci piaceva immensamente sognare. Purtroppo l'apice raggiunto dalla "Cestistica" corrisponde a quello della nostra città. Ed il declino della squadra si è accompagnato a quello di San Severo. Da allora la città si è lentamente spenta, si è involgarita, si è impoverita. Le speranze hanno lasciato il posto alle delusioni. La vecchia borghesia è invecchiata, ed i suoi figli hanno cercato fortuna in altri luoghi. Il loro posto è stato preso da una nuova borghesia di arricchiti privi di una buona educazione, ignorante ed un po' cialtrona. Anche il tessuto produttivo si è disintegrato, sotto i colpi della globalizzazione, e dell'incapacità di fare l'indispensabile salto di qualità. Ed in questa città depressa, debosciata, grigia, priva oramai del minimo orgoglio, ma presuntuosa e arrogante, anche la "Cestistica" ha cessato di esistere. E' la fine di un mito. E' la fine di un'epoca. E' la fine della speranza.

Tutti hanno coscienza del fatto che gli stati, grazie alla tecnologia, stanno diventando sempre più potenti. Se consideriamo la forza militare, è evidente che chi dispone di altissima tecnologia ha sempre il sopravvento su coloro che dispongono di tecnologie meno sofisticate. Ma tutta questa potenza ha un valore solo nel momento in cui la partita si gioca con gli stessi mezzi. Voglio dire che la capacità distruttiva di un esercito tecnologicamente avanzato ha una valore solo allorquando il nemico ha cose che possono essere distrutte. L'esercito più potente può distruggere impianti, installazioni, infrastrutture, ma dove non c'è nulla, nulla può essere distrutto. Con la conseguenza che tutta la potenza di un esercito tecnologicamente avanzato diventa fuffa contro un nemico privo di tecnologia e di obiettivi strategici distruttibili. A suffragio della mia tesi  esistono esempi lampanti. Sconfiggere l'esercito iracheno è stato abbastanza semplice, ma questo non consente al vincitore di avere il controllo del territorio. Per quanti soldi il governo americano possa spendere, mai riuscirà ad imporre la sua volontà al paese occupato. Potrà, al massimo, rubarne le risorse. La stessa cosa è accaduta in Afganistan. Di fatto l'esercito americano, dopo aver speso somme gigantesche, ha perso la guerra. E questo è accaduto proprio perchè il nemico era privo di tecnologia. La potenza distruttrice di un missile lanciato contro una centrale elettrica diventa vana contro uomini nascosti tra le montagne. Questa premessa è stata necessaria per parlare di un'altra cosa: la capacità di controllo che gli stati stanno acquisendo tramite la tecnologia. Se è vero che ogni comunicazione può essere intercettata ed analizzata, è anche vero che questo avviene perchè si comunica usando strumenti elettronici. Io che sto scrivendo sul blog sono cosciente che quel che scrivo sarà sempre visibile a chi ha i mezzi giusti. E la stessa cosa avviene quando uso il telefonino. Ne consegue che chi volesse tenere segreta la propria comunicazione deve astenersi dall'usare internet o il telefono cellulare. E dovrebbe anche evitare di comunicare in macchina o in ambienti chiusi che frequenta abitualmente. Se davvero volessi comunicare con qualcuno con la certezza di mantenere il segreto della comunicazione, mi recherei in campagna, scenderei dalla macchina e parlerei nascondendo il movimento delle labbra. In questo modo tutta la tecnologia più sofisticata diventerebbe inutile. Quelli che credono che internet sia uno strumento molto utile per opporsi ad un governo o per organizzare una rivoluzione, prendono un grande abbaglio. Internet produce esattamente l'effetto contrario, perchè diventa semplicissimo inserirsi nell'organizzazione e distruggerla dall'interno, oppure creare utilissima disinformazione. A quelli che credono nella rivoluzione darei un consiglio, anzi due Innanzitutto la rivoluzione si fa con i vecchi sistemi: nelle strade, con il ciclostile, con i comizi, con il passaparola, con la partecipazione fisica delle persone In secondo luogo il sistema meno efficace per attuare una rivoluzione è l'uso della violenza. Esiste un sistema terribilmente più efficace, e consiste nei piccoli comportamenti quotidiani di milioni di persone. Basti pensare all'effetto distruttivo prodotto dalla scelta di non acquistare certi prodotti o di non fare acquisti in certi negozi. Altro che bombe. In conclusione: la vera forza rivoluzionaria, quella contro la quale i governi possono poco o nulla, è la consapevolezza. E' la consapevolezza che trasforma le rivolte in rivoluzioni. Ed è la consapevolezza la cosa che le oligarchie maggiormente temono. Perchè sconfiggere una popolazione sul piano militare è un gioco da ragazzi. Ma sconfiggerla sul piano dei piccoli comportamenti individuali è impresa davvero difficile.

Giovanni, alla morte del padre, si ritrovò erede dell'attività paterna: la trattoria Italia. Il padre di Giovanni gestiva la trattoria da più di 40 anni, ed aveva una clientela numerosa e fedele. Benchè fosse quasi analfabeta, dimostrò di saperci fare. Aveva una politica all'apparenza strana, ma che gli diede ragione. In pratica il padre di Giovanni ebbe cura di guadagnarsi una clientela di persone ricche, regalando delle portate o una bottiglia di vino, di quello buono. Era la norma che i ricchi, a parità di portate, pagassero meno degli avventori meno abbienti. Lui sapeva che i ricchi potevano frequentare spesso la trattoria, e che il prezzo più basso sarebbe stato largamente compensato dal fatto che quasi settimanalmente li avrebbe avuti come ospiti. Le cose andavano decisamente bene, tanto che, forse per un fatto di coscienza, ogni giorno provvedeva a somministrare del cibo ad una decina di disgraziati che abitavano nella zona. Giovanni, a differenza del padre, aveva studiato. Dai libri aveva imparato molte cose, ma dalla vita poco o nulla. E così gli parve che il comportamento del padre fosse scorretto. I ricchi, pensava, debbono pagare molto più dei poveri, visto che se lo possono permettere. E così iniziò una politica inversa a quella del padre. Ai ricchi faceva pagare il conto nella sua interezza, mentre ai poveri faceva lo sconto. Ma i poveri, nonostante lo sconto, potevano frequentare il ristorante solo di rado, mentre i ricchi pian piano iniziarono a cambiare trattoria. Furono sufficienti pochi mesi per perdere tutta la clientela di ricchi che il padre aveva, in decenni, fidelizzato. Il numero dei coperti diminuì drasticamente, tanto che la trattoria smise di fornire cibo gratuito ai disgraziati del quartiere. Finalmente la trattoria fallì. Quando tutti coloro che potevano spendere andarono altrove, non restarono che i poveracci, che, con la loro miserabile capacità di spesa, non poterono garantire la redditività della trattoria. L'arroganza e la presunzione di chi credeva ciecamente in quel che aveva imparato dai libri, distrusse la trattoria Italia, un tempo prospera e redditizia. Il personale fu licenziato, i disgraziati rimasero senza cibo, e Giovanni perse tutto.
P.S. Giovanni aveva studiato alla Bocconi.

Alfredo è un ristoratore italiano che svolge la sua attività  proprio di fronte  al moulin rouge. E' a Parigi da oltre 14 anni, proviene da Benevento ed è solare e loquace come tutti i meridionali. Come ogni italiano all'estero, mostrando tutto il mio provincialismo, ho preteso di fare un pasto al giorno con piatti nazionali, con buona pace della cucina francese, che trovo pretenziosa ed inconsistente.E così ogni sera, insieme ai miei compagni di viaggio, ho pranzato "al tavoliere", il ristorante di Alfredo. Qui in Francia, mi ha detto, ho potuto aprire il ristorante in tre giorni. I controlli vengono fatti a posteriori, e non prima di iniziare un'attività. Anche se fino ad ora nessuno è venuto a controllare nulla. A dire la verità, se facessero i controlli seriamente, la metà dei locali e degli alberghi di Parigi dovrebbero chiudere. Io, ad esempio, non ho il bagno accessibile ai disabili, e la canna fumaria della cucina non è a norma. Ma qui in Francia non sono coglioni come gli italiani. Far chiudere la metà dei locali sarebbe una tale catastrofe per il comune di Parigi, a livello occupazionale e tributario, che tutti fingono di non sapere. Qui in Francia non sarebbe mai successo che la magistratura aprisse  un'indagine sulla corruzione delle proprie industrie degli armamenti che pagano mazzette ai vari dittatori del mondo. Il nazionalismo è molto forte, e per l'interesse del paese tutti possono chiudere un occhio, e spesso anche tutti e due. Approfittando della confidenza ho chiesto: e con l'evasione fiscale, come siete messi Ho appena rifatto il bagno, ha risposto, ed ho pagato tutto in nero. Qui a Parigi vale la regola del 40%. Se chiami un artigiano e non ti serve la fattura, hai lo sconto del 40% sul costo fatturato. E non si tratta di un'eccezione, ma di una regola generale. A nessuno piace pagare le tasse, ne in Francia, ne in Italia, ne in nessun altro posto. E qui, come ovunque, chi può evadere, lo fa. Ed effettivamente ho potuto constatare che solo i grandi negozi appartenenti a catene fanno sempre gli scontrini. Tutti gli altri negozi no. Ho fatto decine di acquisti in piccoli negozi e nessuno, e dico nessuno, ha fatto lo scontrino. Giù in terronia si fanno molti più scontrini che a Parigi. E questo alla faccia dei soliti imbecilli che sostengono che solo gli italiani siano evasori, e che tutti gli altri siano integerrimi contribuenti: col Kazzo. Ci sono anche i Koglioni che sostengono che poichè le piccole attività evadono il fisco, è meglio che scompaiano, lasciando il posto alle grandi catene che fanno sempre gli scontrini. Purtroppo non c'è lo spazio per spiegare a questi Koglioni i 347.823 sistemi attraverso i quali le grandi catene non pagano un Kazzo di tasse. Ma quelli di voi abbastanza intelligenti ne conoscono una buona parte, e poichè è a voi che mi rivolgo quando scrivo, mi pare inutile essere prolisso. Comunque la chiacchierata con Alfredo è stata molto istruttiva. Tutti gli italiani, ha continuato, credono che all'estero la gente lavori di più e meglio. Si tratta di un'altra stronzata. Il muratore che mi ha rifatto il bagno ci h impiegato 2 settimane, ed il lavoro è pessimo. Un muratore italiano ci avrebbe impiegato tre giorni, ed avrebbe fatto un lavoro con i fiocchi. Lo vedo quando torno a Benevento, ammirando le ristrutturazioni delle case dei miei parenti e dei miei amici. Gli artigiani hanno abilità che i francesi si sognano. A parte il fatto che le case che al mio paese hanno i semplici impiegati ed operai a Parigi se le possono permettere solo quelli molto ricchi. A Benevento la casa normale è di 120 metri, oltre al box e alla cantinetta. I bagni sembrano discoteche, tra marmi e vasche idromassaggio. A Parigi io abito in una casa di 50 metri che cade a pezzi, e pago 1300 euro di affitto. La grande differenza tra Parigi ed il sud Italia è questa: a Parigi gli spazi pubblici sono belli e ben tenuti, mentre gli spazi privati sono meno che mediocri in termini di pulizia, qualità, decoro. Al sud lo spazio pubblico mostra degrado, incuria e trasandatezza, mentre gli spazi privati sono curati, pulitissimi, molto confortevoli. Si tratta di due culture profondamente diverse, e sostenere che una sia migliore di un'altra è semplicemente stupido. Alfredo, per dare sostegno alle sue tesi mi ha presentato un commensale che pranzava ad un tavolo vicino. Si trattava del proprietario del moulin rouge, francese con padre italiano, padrone della nostra lingua. Questo signore mi ha confermato che ogni qualvolta ha bisogno di fare dei lavori nel proprio locale, che si tratti di impianti tecnologici, o di scenografie o di arredi, si rivolge ad imprese italiane, le migliori al mondo. Spesso utilizza aziende di cinecittà, capaci di realizzare scenografie come nessun' altro. Ho poi saputo una cosa che non immaginavo: il moulin rouge incassa oltre 100 mila euro al giorno, ed impiega alcune centinaia di persone. Ad ogni modo, ho capito che il nostro sport nazionale è quello di parlar male di noi stessi, ma che in fondo non siamo poi tanto peggio degli altri. Ho raccontato ad Alfredo di aver notato più volte i netturbini di Parigi lavorare con molta flemma, quasi con una lentezza esasperante. Ho sempre criticato i netturbini del mio paese, considerandoli degli scansafatiche. Ma in confronto a quelli parigini sembrano degli stakanovisti. In effetti, ha detto Alfredo, i dipendenti pubblici francesi lavorano pochissimo. Se le cose funzionano meglio è solo perchè le norme sono meno ingarbugliate e l'organizzazione è migliore. Ma in una gara di fancazzismo i francesi vincerebbero alla grande. Sulle scuole, poi, è meglio stendere un velo pietoso. Ho poi raccontato ad Alfredo di aver visto molte donne musulmane vestite in modo tale da lasciare scoperti solo gli occhi. Gli ho chiesto: come mai queste persone, che detestano l'occidente, la sua cultura ed i suoi valori, non se ne vanno a vivere in un paese integralista? Perchè, mi ha detto, sono cittadini francesi, e non vogliono rinunciare al benessere ed alle garanzie del walfare di un paese occidentale. Si tratta di un problema di cui sempre più persone prendono atto, e che sta portando acqua al mulino della Le Pen. L'integrazione ha fallito, in Francia come in altri paesi. Si possono integrare tutti, ma non i musulmani. E questo, per la francia, sarà un grosso problema. Appena la crisi diverrà più grande, e lo stato sarà costretto ad essere meno generoso, saranno guai: chi vivrà vedrà. Comunque Parigi resta una città splendida, se non si considerano le banlieu. I colleghi di mia moglie ci hanno regalato una cena sul bateaux mouche. Io non amo queste cose, perchè mi sembrano delle prese per il culo, ma "a caval donato non si guarda in bocca". E poi mia moglie trova che queste cose siano romantiche, e riesce ancora a sognare. E così ci siamo imbarcati. Il battello era decisamente elegante, il personale squisitamente gentile, e la musica dal vivo eccellente. Della cena, però, debbo salvare solo il vino (davvero buono) ed i formaggi. Il resto, francamente, mi è parso mediocre. Trovo i piatti francesi ricchi di enfasi e poveri di sostanza. Dicono che quella francese sia una grande cucina, e sono costretto a crederci. Sono io, probabilmente, che non  riesco a coglierne le qualità. Di sicuro un incontestabile lato positivo esiste. Non ho visto un solo parigino in sovrappeso. Solo, raramente, qualche donna di colore. Mi sono chiesto spesso se la capacità di mantenere il giusto peso sia dovuta alla dieta, oppure al fatto che chi vive a Parigi è costretto a percorrere almeno 30 minuti al giorno con passo veloce, salendo e scendendo le scale della metropolitana che solo raramente dispone di scale mobili. Può sembrare poco, ma trenta minuti al giorno, per tutta la vita, possono fare la differenza. Certamente il prezzo del cibo, a me che vengo dal sud, pare abnorme. La differenza con i prezzi del mio paese va dal 200 al 400 per cento. Se dovessi vivere a Parigi e consumare la stessa frutta che consumo a casa mia, sarei rovinato. Oppure riuscirei a dimagrire, che non sarebbe male. Anche il prezzo delle sigarette è molto alto. Ho visto poca gente fumare, e non saprei dire se per scelta o per necessità. Ma se alzare di molto il prezzo delle sigarette disincentiva il fumo, sarei d'accordo a portare il prezzo del pacchetto a 10 euro. Un'altra cosa che ho notato, e che mi ha lasciato favorevolmente colpito, è l'assenza dei videogiochi e delle slot nei locali e nelle tabaccherie. E non ho neanche visto sale dedicate alle slot ed alle scommesse. Da questo punto di vista i francesi hanno molto da insegnarci. Ho visto, invece, con buona pace dei soliti Koglioni, numerosi venditori abusivi. Molti cingalesi vendevano bottigliette d'acqua ai turisti, a pochi metri della polizia che non batteva ciglio. Non ho visto arrivare con gli elicotteri agenti in tenuta antisommossa per arrestarli e frustarli, come responsabili di tutti i guai francesi, così come i soliti koglioni vorrebbero che accadesse in Italia. E non ho visto neanche il desolante spettacolo italiano della desertificazione delle strade per la chiusura dei negozi. In Italia, ovunque si vada, la quantità di locali in affitto è angosciante. A Parigi, tanto in centro quanto nella prima periferia, i locali in affitto erano davvero rari. Debbo dedurne che i consumi siano ancora ragionevolmente sostenuti, e, nel contempo, che il fisco sia meno vessatorio. Si tratta di supposizioni, naturalmente. Non ho elementi per conoscerne le vere ragioni. Sono ripartito da Parigi con una sola certezza. Per vivere e godere di una grande città come Parigi, o come Roma o Londra o Milano, bisogna guadagnare davvero bene. Si tratta di città che offrono molto, ma che non danno nulla gratis. Per chi ha dei redditi da operaio o da impiegato, anche lavorando in due, si vive da morti di fame. Ed allora molto meglio la vita in provincia. Salvo il caso di chi vuole emergere in una delle tante professioni creative, che solo nelle grandi città possono sperare in un qualche successo. In questi casi, la speranza di una realizzazione professionale può anche giustificare anni di stenti e di privazioni. Mai dire mai, lo so. Ma cr davvero che questa sia davvero l'ultima volta che visito Parigi. credo davvero che questa sia davvero l'ultima volta che visito Parigi. 

  • Pochi si rendono conto della violenza insita nel pretendere di controllare i sentimenti delle persone. Ogni sentimento, per quanto detestabile possa essere, è parte della natura umana, ed è imprescindibilmente legato all'esercizio supremo del libero arbitrio. Ed è proprio l'esercizio del libero arbitrio che fa di un uomo un essere diverso rispetto ad ogni altro animale. Il razzismo è un sentimento, e come tale è sempre legittimo. Ogni uomo deve avere il diritto di detestare chiunque voglia, e nessuno può sindacare la legittimità delle sue ragioni. Cosa diversa, naturalmente, è l'esercizio della violenza in conseguenza di ragioni puramente razziali. In fondo siamo tutti, e dico tutti, razzisti. Chi di voi sarebbe felice se la propria figlia decidesse di sposare uno zingaro? E chi di voi sarebbe felice di ospitare nel proprio condominio famiglie di cultura diversa, assolutamente irrispettose delle regole alle quali siete abituati? Che poi, in fondo, si spaccia per razzismo qualcosa che in fondo ha poco o nulla a che fare con la razza. Quasi sempre quello che viene definito razzismo non è altro che il desiderio di non vedere stravolte le regole che la cultura alla quale si appartiene ha decantato nel corso dei secoli. Provate ad abitare in un condominio in cui vi abita anche una famiglia di zingari, e vi accorgerete che la pace e l'ordine nei quali ambivate vivere saranno stravolti. Nessun condomino vorrebbe un certo tipo di coinquilini. E se uno mette un cartello con su scritto "si affitta, escluso agli zingari" perché si finge di scandalizzarsi? E cosa centra il razzismo con tutto questo? Della razza degli zingari non frega niente a nessuno, ma del loro modo di vivere, si. L'ipocrisia del politicamente corretto ha, francamente, cacato il cazzo.
Una delle cose che mi colpì quando iniziai, per lavoro, a frequentare artigiani di una certa età, fu la lentezza e la calma con la quale operavano. All'inizio pensai che ciò fosse dovuto al fatto che avessero tutti una certa età, e che il peso degli anni si facesse sentire. Forse, pensai, quando erano più giovani i loro ritmi lavorativi erano sicuramente più serrati: mi sbagliavo. In realtà questi artigiani rispecchiavano semplicemente il mondo nel quale furono forgiati professionalmente. I ritmi del lavoro, come della vita, erano lenti, e dopo aver lavorato le ore di prassi, cascasse il mondo, si chiudeva baracca e ci si dedicava ad altro. Il sabato pomeriggio e la domenica erano dedicati al riposo assoluto. A quelli come me, allora giovane, tutto questo pareva strano. Noi lavoravamo a ritmi parossistici, spesso chiudendo la bottega altre le 21, ed era prassi lavorare anche il sabato pomeriggio e la domenica. Occorreva lavorare di più, sempre di più, ed avremmo desiderato che la giornata fosse di 48 ore. Che le cose, nell'arco di un paio di generazioni, fossero cambiate, mi fu confermato da un contadino prossimo alla pensione. Ero convinto che il lavoro, nel passato, fosse molto più duro. "Ti sbagli" mi disse il contadino, "è vero che un tempo si facevano molte più ore di lavoro rispetto ad oggi, ma i ritmi erano diversi. La mattina ci si recava in campagna che era ancora buio. Quando si era sul posto si accendeva un fuoco per scaldarsi, e si chiacchierava fin quando la luce non fosse stata sufficiente per lavorare. Si lavorava con calma, e quando si arrivava al "recapito" (limite del filare) ci si accendeva una sigaretta e ci si prendeva una pausa. E così fino alle 9, quando ci si fermava per mangiare qualcosa. Poi si riprendeva e ci si fermava nuovamente alle 12, al suono dell'"ave maria". Si mangiava e ci si faceva anche una piccola pennichella. Poi si riprendeva di nuovo il lavoro, sempre con ritmi lenti, fino all'ora del rientro al paese." "Oggi" continuò il contadino, "si lavora sette ore esatte. Ma il ritmo è frenetico e non si ha neanche il tempo di alzare la testa dalla terra. Credimi, oggi si lavora molto più di un tempo." Sono certo che la gran parte di voi obietterà che c'era tanta miseria, mentre oggi c'è un benessere diffuso, almeno all'apparenza. Ma l'errore di fondo è quello di non considerare che il benessere di cui godiamo è dovuto esclusivamente all'aumento della produttività, a sua volta dovuto agli enormi progressi scientifici e tecnologici. E tutto questo è paradossale, perché qualunque persona sana di mente comprende che un aumento della produttività dovrebbe condurre ad una diminuzione delle ore lavorate. E poi, siamo certi che un operaio che per recarsi al lavoro deve perdere 3 ore al giorno tra andare e venire, ed altre otto ad una catena di montaggio ripetendo le stesse azioni per tutta la vita, per poi tornare a casa in un monolocale di periferia a 700 euro al mese, sedersi davanti alla tivù ed addormentarsi distrutto, senza forse neanche sapere cosa ha costruito, abbia una qualità della vita migliore di quella del passato più povero? Su questo ci rifletterei! In ogni modo c'è una cosa che davvero mi lascia perplesso: il fatto che si pretende di uscire dalla crisi lavorando di più. Ora io mi domando: ma con la tecnologia attuale, se tutti fossero occupati e facessero anche gli straordinari, compresi quelli che oggi fanno lavori inutili come i burocrati, la produzione crescerebbe di molto. E se tutti i cittadini del mondo facessero la stessa cosa avremmo una tale produzione di beni e servizi che divorerebbe il pianeta in un paio d'anni. Un paese come la Germania viene considerato ricco, dimenticando che la sua ricchezza è dovuta alla miseria degli altri. Se anche la Nigeria o il Vietnam o la Siria avessero un apparato industriale come quello tedesco, i crucchi a chi venderebbero le loro merci? Se tutti i paesi avessero lo stesso livello dei consumi dei tedeschi o degli americani, da dove prenderemmo le materie prime e l'energia per alimentare il sistema? Ed allora dobbiamo avere l'onestà di dire le cose come stanno: perché il sistema attuale funzioni è necessario che ci siano vincitori e vinti. Quella che noi chiamiamo competizione non è che una guerra economica, combattuta  con la produttività, i cambi, il credito, le regole neo liberiste. Io, che sono un fesso, vorrei un mondo in cui siano tutti vincitori. E questo presuppone che ogni paese produca ciò che consuma, e che gli scambi si effettuino con il presupposto che tutte le bilance commerciali debbano essere in pareggio. Ma in un mondo così fatto ogni uomo dovrebbe lavorare molto meno di quanto non faccia adesso, per la semplice ragione che altrimenti non ci sarebbero risorse materiali per sostenere questo modello. Dicono che per uscire dalla crisi si debba lavorare di più. Ma non è che forse la vera strada per uscire da questa situazione assurda non sia invece quella di lavorare meno, ma lavorare tutti?

Il valore di un credito sta nella sua probabilità di essere riscosso. Avere cento ettari di terreno è diverso che avere lo stesso valore in crediti, perché se è vero che il debitore si trova quasi schiavo del creditore, è altrettanto vero che il creditore si trova nelle mani del suo debitore. Esistono strumenti per costringere con la forza il debitore ad onorare i suoi debiti, ma si tratta di strumenti che funzionano solo nel caso in cui esiste concretamente la possibilità che il debitore possa pagare. Ma se il debitore fallisce i crediti diventano carta straccia. Io ritengo che la quantità di debito a livello mondiale sia tale da non poter essere in alcun modo ripagata, con la conseguenza che, nella sostanza, tutta la cosiddetta ricchezza finanziaria mondiale non è che fuffa. Ci si scambia fuffa, si quota fuffa, si vende fuffa. Ma si tratta di un gioco farlocco, destinato a finire entro breve. Prima o poi molti resteranno con il cerino in mano. E questo avverrà probabilmente quando la maggioranza della popolazione capirà che sarà arrivato il momento di decidere se pagare subito il conto di un grande patatrak, oppure se condurre per decenni una vita di stenti e di insicurezza. Ciò che ancora tiene in piedi il sistema è la speranza che le cose si possano risolvere. Una speranza artatamente costruita dai governi attraverso i media, con la complicità della diffusa ignoranza della gente. Ma questa speranza sta pian piano svanendo, e presto arriverà il momento in cui ognuno sarà messo di fronte alla realtà.

Si ritiene, erroneamente, che la fiera delle banalità sia una prerogativa dell'italiano medio, ovvero della famosa casalinga di Voghera. Lascia quindi stupiti il fatto che anche persone che dovrebbero essere immuni da questa pecca, non si esimano dal partecipare al coro generale del "luogo comune". L'occasione per questa riflessione mi è stata data dall'imminenza del Festival di Sanremo, e dall'immancabile contorno di piccole e grandi polemiche e dalle solite prese di distanza di coloro che pensano, in tal modo, di darsi un tono. Si tratta di intellettualoidi privi di consistenza, cosa che li costringe a prendere le distanze da tutto ciò che è popolare. Mi pare, anzi, che proprio coloro che si dichiarano di sinistra, e che quindi dovrebbero essere più vicini alla cultura popolare, siano i maggiori denigratori del Festival come di ogni altra manifestazione simile. Gli argomenti sono sempre gli stessi, e si ripetono in tutti gli ambiti: non ci sono più le canzoni di una volta, non ci sono più i film di una volta, non ci sono più i programmi di una volta. Si tratta di evidenti stupidaggini. Il Festival presenta ogni anno decine di nuove canzoni, e tra esse ve ne sono alcune davvero belle. Se andiamo indietro nel tempo possiamo verificare che in ogni edizione del Festival è stata presentata qualche canzone che ancora oggi ascoltiamo con piacere, per non parlare del numero degli artisti che sono stati lanciati proprio grazie al festival In fondo Sanremo è un rito, ed anche quelli che ne parlano male, senza rendersene conto, partecipano a questo rito. Se venisse a mancare il coro di chi si dissocia o di chi ne parla male, questo rito perderebbe uno degli elementi essenziali che lo caratterizzano. Chi guarda Sanremo non si aspetta un dibattito in cui alcuni filosofi discettano sui massimi sistemi, ma semplicemente uno spettacolo leggero, sempre uguale e sempre nuovo, che segna, in qualche modo, la fine dell'inverno. In fondo, venti milioni di ascoltatori danno ragione al Festival. Sono tutti imbecilli? Non credo. Credo, anzi, che lo siano maggiormente quelli che fingono pubblicamente di disprezzare queste manifestazioni, e poi ne canticchiano i motivi, o frequentano i concerti dei Vasco Rossi e di tutti coloro che hanno partecipato a Sanremo. Gli stessi intellettualoidi che criticano il cinema italiano contemporaneo, come se nel passato, insieme a grandi film, non fossero state prodotte le varie pellicole con Gianni Morandi, Caterina Caselli o Rita Pavone. E chi di voi non ricorda i vari Maciste, Ercole, Sansone? La produzione nel campo dell'intrattenimento è sconfinata, ed include lavori di grande pregio e cose dozzinali. Alla fine a decidere deve essere il pubblico. Salvo il caso in cui riteniamo che il dovere dello stato debba essere anche quello di educare il popolo, e quindi di decidere cosa vedere e cosa ascoltare. Ed allora viva il Festival, se per una settimana ci eviterà di vedere le facce dei soliti politici ed ascoltare le immense stronzate che dicono.

C'è molta enfasi sul fatto che a Napoli un extracomunitario sia intervenuto per bloccare uno scippatore. La cosa che fa riflettere è che ciò che dovrebbe essere normale sia divenuto un fatto degno di cronaca. Quello che ha fatto l'extracomunitario è quello che avrebbe fatto ognuno dei nostri genitori, gli stessi che hanno lottato e preso bastonate per rivendicare quei diritti di cui abbiamo goduto, e che pian piano ci stanno togliendo, nell'indifferenza generale. Ritengo molto grave il rammollimento dei cittadini occidentali. E mi riferisco ad un rammollimento morale, che ci vede incapaci di indignarci di fronte a qualsiasi nefandezza. Tutto questo è molto pericoloso, perchè la storia insegna che qualunque civiltà la cui morale sia degenerata, alla fine è stata spazzata via da altre culture portatrici di quei valori su cui si costruì la grandezza di quelle stesse civiltà. Dal matrimonio tra gay, al numero impressionante di separazioni, dalla perdita del senso della famiglia e della comunità alla diffusione smodata di alcol e droghe, dallo smisurato edonismo all'egoismo più becero, tutto questo, e molto altro, ci stanno rendendo a tal punto deboli, da poter essere spazzati via alla prima tempesta. Quando si può finire in galera per aver tirato uno schiaffo al figlio, vuol dire che ogni uomo si è spogliato di quelle prerogative che lo rendono tale. In tal modo il confine tra la sfera privata e quella pubblica si sta sempre più spostando. La debolezza morale degli uomini autorizza gli stati ad essere sempre più invadenti, surrogando buona parte dell'essenza dell'essere uomo: il libero arbitrio. La nostra libertà si va pian piano riducendo man mano che gli stati aumentano gli ambiti regolamentati da una qualche legge. Si sta procedendo a passo veloce verso una società in cui nulla più sarà lasciato alla sfera privata, ma ogni nostra azione si svolgerà nel ristretto ambito di una qualche norma, emanata con il pretesto dell'interesse collettivo. Si arriverà a cose che oggi possono sembrare assurde, come l'obbligo di seguire una certa dieta o di guardare certi film. Sguinzaglieranno migliaia di psicologi per verificare il nostro stato psichico, sempre nell'interesse generale, e decideranno se potremo tenere i nostri figli o addirittura se potremo mettere su famiglia. E mentre lentamente provvederemo ad annichilire la nostra civiltà, altre popolazioni, forse meno "civili" ma certamente più moralmente sane e più prolifiche, riempiranno il vuoto umano che avremo creato, fino a spazzarci via. Gli egiziani che hanno manifestato e rovesciato il governo, sfidando la polizia e l'esercito, e pagando il prezzo di parecchi morti, sono uno schiaffo verso noi italiani, incapaci di rovesciare una classe politica degenerata che ci sta portando alla rovina. Abbiamo paura di prendere qualche manganellata, o di perdere un giorno di lavoro, senza renderci conto che stiamo perdendo il nostro futuro. Che i manifestanti egiziani avessero ragione o meno ha poca importanza. Quello che davvero importa è che in quel paese ci sono ancora uomini, mentre l'Italia si sta trasformando in un paese di quaquaraquà. E la conseguenza inevitabile, sempre che non ci sia un grosso colpo di reni, è che gli egiziani, e gli altri popoli simili, ci soppianteranno. Fatevene una ragione.


Quest'anno Babbo Natale è stato particolarmente magnanimo. Rientrando a casa insieme a mia moglie ho avuto la sorpresa di non trovare più il mio vecchio televisore, sostituito da un nuovo apparecchio. In realtà mio figlio ha voluto farci un bella sorpresa, regalandoci un grande televisore a schermo piatto completo delle ultime tecnologie, e sostituendolo al nostro vecchio apparecchio a tubo catodico, ancora perfettamente funzionante. Ce ne ha mostrato il funzionamento e le qualità, decisamente migliori rispetto a quelle alle quali eravamo abituati. E così, come due vecchi rincoglioniti dallo sguardo ebete, abbiamo iniziato a fare zapping, passando da un programma all'altro, stupiti ed entusiasti di tanta tecnologia e da tante opzioni. Ma l'entusiasmo, debbo confessarlo, non è durato molto. In fondo, nonostante l'alta definizione, il numero dei canali disponibili ed i colori brillanti, continuavamo a ricevere merda, null'altro che merda, anche se su schermo grandissimo. Direi, anzi, che la mediocrità delle trasmissioni mi pareva esaltata da tanta tecnologia. Stupidi si nasce, ed io lo nacqui, purtroppo. Ed è grazie alla mia congenita stupidità che sono meno felice della gran parte delle persone. Rifletto e mi faccio delle domande, e questo, spesso, mi porta alla depressione. Confesso che invidio quelli che navigano in superficie, non si pongono domande, e si entusiasmano per quelle cose che io trovo assurde: il matrimonio dei reali inglesi, le vicende di Belen, il rigore contestato, i capricci di Balottelli. E dico: beata ignoranza, quando si sta bene de capo, de core e de panza. Comunque, il fatto è questo: il mio vecchio televisore funzionava benissimo, ad assolveva con onore al compito per il quale era stato costruito. Avrebbe durato sicuramente almeno un'altra decina di anni. Invece andrà ad aumentare la gigantesca massa di rifiuti tecnologici, spesso perfettamente funzionanti, e ad inquinare, rilasciando nell'ambiente la sua dose di metalli pesanti. Pochi milligrammi, che, moltiplicati per miliardi, produrranno disastri inimmaginabili. Avete idea di quanti telefonini ogni anno vengono buttati, anche se ancora funzionanti? Centinaia di milioni. Un vero olocausto causato dal desiderio di possedere apparecchi sempre più sofisticati e tecnologicamente avanzati. Conta poco il fatto che, alla fin fine, un telefono serve per comunicare a distanza, chiamare e ricevere chiamate. Cosa che il mio telefonino dal valore di 9 euro e con la plastica che protegge il display spaccata, fa egregiamente da ben 7 anni. Gli attuali telefonini fanno cose sorprendenti, ma di cui, in realtà, nessuno aveva bisogno. Ma il nuovo i-pod, si sa, fa tanto scic. E così vediamo milioni di rimbambiti perdere ore a videogiocare, o a lanciare inutili messaggi. E' il progresso, mi dicono. A me pare che in tutto questo di progresso ce ne sia davvero poco. Mi hanno chiesto spesso per quale motivo la mia auto non disponesse di navigatore, con il tono meravigliato di chi pensa che non se ne possa fare a meno. Io detesto il navigatore, per la semplice ragione che mi impedisce di perdermi. Perchè perdendomi ho conosciuto posti meravigliosi che altrimenti non avrei mai conosciuto. Ma sopratutto perchè, in un certo modo, riduce il piacere del viaggio, della scoperta, dell'imprevisto. Sicuramente per un agente di commercio o per un trasportatore il navigatore è uno strumento utilissimo. Ma per la gran parte delle persone si tratta solo di un gadget inutile, direi anzi dannoso, perchè  disabitua ad usare il cervello e, sopratutto, ci impedisce di compiere una di quelle cose fondamentali per il progresso della civiltà: sbagliare. La tecnologia, in fondo, è una cosa meravigliosa, ma porta con se delle insidie di cui pochi si rendono conto. Mi chiedo spesso quante persone sappiano ancora fare velocemente dei calcoli senza l'uso di una calcolatrice. Non voglio, si badi bene, sostenere che le macchine che fanno velocemente calcoli complessi non siano utilissime all'umanità. Quello che voglio dire è che, comunque, non bisognerebbe perdere la capacità di eseguire dei calcoli con l'esclusivo ausilio della propria mente. Ogni dipendenza è sempre foriera di problemi, ed a questa regola non sfugge la dipendenza dalla tecnologia. Ci affidiamo ad essa per i grandi vantaggi che ne derivano, ma spesso anche perchè ci pare di non poterne fare a meno, per semplice assuefazione. Forse sto divagando. Parlavo del nuovo televisore. Ebbene, preferisco vedere una commedia di Eduardo, o un episodio del Maigret interpretato da Cervi, anche se in un vecchio televisore in bianco e nero, piuttosto che una delle tante insulse fiction prodotte ultimamente, anche se in un televisore dallo schermo gigante e ad alta definizione. Direi anzi che vedere la merda in alta definizione ci da l'impressione di sentirne anche la puzza, e questa non mi pare una gran bella cosa. Voglio dire che una poesia di Leopardi può essere scritta anche su un pezzo di carta da imballaggio, senza perdere nulla della sua grandezza. Ecco! Il progresso. Forse se tutti noi producessimo meno cose inutili, e quindi lavorassimo meno, avremmo più tempo per leggere Leopardi, oppure per farci una trombata. Due cose gratuite, non inquinanti, appaganti  e benefiche. Forse il PIL non aumenterebbe, ma aumenterebbe il nostro benessere. Perchè, riflettendoci bene, il vero progresso è quando stiamo meglio, e non necessariamente quando abbiamo di più. Grazie alla tecnologia aumentiamo costantemente la produttività del nostro lavoro, e la cosa è senz'altro positiva. Ma l'aumento di produttività dovrebbe consentirci di lavorare meno, e non di produrre più cose inutili, dalla rapida obsolescenza e dalle conseguenze nefaste per il nostro pianeta. I furbacchioni che controllano il mondo continuano a farci credere che solo la crescita senza limite possa impedire l'aumento della disoccupazione e della povertà. In parte è vero, sopratutto se riteniamo quello attuale l'unico sistema economico possibile. Io credo, invece, che esistano alternative a questo modello, e che tali alternative vengano nascoste perchè solo questo modello consente alle plutocrazie di arricchirsi sempre più. Ma l'interesse di queste plutocrazie, con la loro brama di denaro e di potere, non è l'interesse dei popoli. Con la conseguenza che tanto più il modello attuale avrà successo, tanto peggio sarà per la gente comune. Pochi, ancora, si rendono conto che la gran parte dei problemi che si stanno manifestando a livello globale non potranno trovare soluzione in questo modello economico e sociale. Le cose peggioreranno sempre più, e non per l'incapacità dei governi di gestire le cose, ma per la loro incapacità di capire che è il modello ad essere sbagliato, e dentro di esso non c'è spazio per migliorare la qualità della vita di tutti noi. Intanto, dallo schermo del nuovo televisore, la solita carrellata di politici sparakazzate provvede ad alimentare il rinkoglionimento generale. Sembra inverosimile che sia tanto numerosa la schiera di coloro che ancora ripongono fiducia nella nostra classe politica, come se non fosse ancora evidente lo sfascio ed il degrado che il paese ha subito negli ultimi 30 anni. La debacle è generale. Non funziona più nulla, neanche ciò che dovrebbe essere nell'interesse primario dello stato: la capacità di raccogliere tasse. Se è vero che l'evasione ammonta a quasi 200 miliardi l'anno, e lo stato non ne riesce a recuperare che un centesimo. Viene il sospetto che la famigerata evasione fiscale non sia che l'ennesimo slogan per giustificare le malefatte e le inettitudini del governo di turno. Eppure ogni ente pubblico, dallo stato alle regioni, ai comuni, chiede sempre nuove risorse, come se la capacità di tassare fosse infinita. Mi pare che ripetano lo stesso errore: credere alla crescita infinita. E così come la crescita economica senza limite distruggerà il pianeta, così la crescita della pretesa fiscale distruggerà lo stato. E' sempre successo in passato, e succederà ancora. Cerco di non pensare a tutti i pagamenti che mi aspettano il prossimo mese, sarebbe troppo deprimente. E vi confesso che, se non fosse per mia moglie, venderei la casa e me ne andrei a vivere come un eremita, perchè, credetemi, mi sono davvero rotto il Kazzo. Guardo il vecchio televisore, e mi commuovo. Oppure è lui che guarda me, leggermente inkazzato per il destino che lo attende. Pare quasi che volesse parlarmi, per dirmi che sono un pazzo tra pazzi; e forse ha ragione.

E' domenica, una di quelle domeniche di dicembre fredde e piovigginose, senza essere troppo fredda e senza essere davvero piovosa. Praticamente una domenica senza lode e senza infamia, scialba nella misura necessaria per essere pertinente al contesto che stiamo vivendo. La città appare deserta, se non fosse per qualche auto che, di tanto in tanto, illumina l'asfalto bagnato. La gente sembra chiusa in casa, o, forse, è solo una mia impressione. Forse sta affollando qualche centro commerciale, godendo dell'illusione di essere ancora parte del popolo dello shopping. Guarda le vetrine, progetta i prossimi acquisti, e sogna. Sogna di poter entrare in un negozio e poter comprare quel che desidera, pagando con la propri carta di credito che, al momento, è stata bloccata. Intanto, giusto per non entrare in depressione, entra in uno dei grandi mercatoni e fa il suo bell'acquisto: una  maglietta da due euro. Acquistare qualcosa è diventata una vera dipendenza, la cui soddisfazione sta facendo la fortuna dei negozi cinesi e di tutti quei mercatoni che vendono robaccia. Si acquista quasi sempre roba inutile, di cui non si ha davvero la necessità. Ma come per tutte le dipendenze si tratta di comportamenti convulsivi, privi di razionalità. Liberarsi di questa dipendenza richiede buona volontà, forte motivazione e tempo. Oppure, come sta accadendo per gli stupefacenti, sarà proprio la mancanza di soldi ad obbligare la gente a correggere i propri comportamenti. Intanto ha ripreso a piovere, mentre mi godo lo scoppiettio della legna nel camino. Guardo la fiamma, ed anche lei mi guarda. Una delle cose che il camino mi ha insegnato è che, perchè la fiamma sia sempre vivace, occorre che ci siano almeno due pezzi di legno. Un solo pezzo di legno, per quanto grosso sia, prima o poi si spegnerà, o, al massimo, continuerà a bruciare molto lentamente, quasi si volesse spegnere in una triste agonia. Ma se i legni sono due, arderanno entrambi con vigore, perchè ognuno di essi alimenterà l'altro, in uno scambio continuo di energia. L'unione e la solidarietà produrrà una fiamma più grande della somma delle singole fiamme. Io, che nacqui poeta, amo interpretare i piccoli e spesso insignificanti segnali della natura, e cerco di dedurne regole che poi possono essere applicate ai comportamenti umani. E così, guardando il camino, mi viene da pensare che anche nella società l'unione, la solidarietà, la collaborazione, producono risultati migliori rispetto alla somma di tanti egoismi. Pare che abbia smesso di piovere, mentre mi accingo ad affettare del pane che farò abbrustolire sulla brace, e che condirò con olio nuovo e pomodorini. Qualche oliva ed un bicchiere di vino completeranno il nobile pasto che mi accingo a consumare. In tasca ho nove euro, ma sono sereno, quasi felice. In fondo ho tutto quel che mi occorre, e domani.........domani è un altro giorno.


Quello sociale è un sistema complesso, e come tutti i sistemi può essere più o meno efficiente. La misura di questa efficienza dipende dal metro che si intende utilizzare. Sembra superfluo evidenziare che il metro finanziario sia molto diverso da quello sociale. Voglio dire che un banchiere (che andrebbe impiccato insieme ai suoi colleghi) valuterà l'efficienza finanziaria del sistema nel quale opera, e ne trascurerà l'efficienza sociale. In parole povere un banchiere suffragherà quei sistemi sociali che gli consentiranno i maggiori profitti, trovandoli più efficienti di altri. Egli, unitamente a tutti i plutocrati, trarrà grandi profitti da quella degenerazione del sistema capitalistico chiamata neoliberismo. La sosterrà in ogni modo, e la difenderà anche con la guerra. Ed effettivamente ne ha tutte le ragioni. Nessun altro sistema ha prodotto in modo tanto evidente un aumento della ricchezza di quella sparuta minoranza della popolazione composta da super ricchi, mentre il resto della popolazione si è andata man mano impoverendo. Non credo che si possa dubitare sul fatto che l'efficienza finanziaria di un sistema produca grosse inefficienze sotto il profilo sociale. Quasi sempre l'aumento di ricchezza di cui beneficiano le plutocrazie non è dovuta, se non in parte, ad un aumento complessivo di ricchezza, ma ad un aumento delle disparità sociali. Della grossa torta del PIL, una parte sempre più grande soddisfa le brame di una minoranza, ad evidente discapito del resto della popolazione. Se siamo disposti a considerare naturale e giusto che il più forte sopprima il più debole e si appropri delle sue risorse, allora possiamo accettare come sistema più efficiente quello neoliberista. Ma se pensiamo che l'uomo sia qualcosa di diverso da ogni altra forma vivente, allora non possiamo accettare che la società venga costruita sulla legge del più forte. Anche perché, e qui occorre riflettere profondamente, l'incontenibile brama di ricchezza di una minoranza non è giustificata dalla necessità di garantire e se stessi ed ai propri discendenti la sopravvivenza. Il soddisfacimento di questo istinto potrebbe giustificare il desiderio che ogni uomo ha di possedere più del necessario. Ma quasi sempre la minoranza di plutocrati dispone di tali ricchezze da non giustificare, se non come una deviazione patologica, la volontà di aumentare senza limiti tale ricchezza. Mi pare evidente che l'accumulo di ricchezza rappresenti, per questi individui, lo strumento per aumentare il proprio potere. Ed è la capacità di esercitare il potere sul maggior numero di individui che spinge le plutocrazie ad accumulare sempre più ricchezze, usando qualunque strumento e non curandosi delle conseguenze che le loro scelte producono su miliardi di esseri umani.
Ognuno di noi dovrebbe chiedersi se sia conveniente che esistano persone il cui scopo sia quello di dominarci, e che tali persone aumentino costantemente la propria forza economica, e con essa la capacità di attuare i loro diabolici disegni. Ma sopratutto dovremmo chiederci se sia conveniente che questi psicopatici impongano ai governi le loro politiche, il cui fine è sempre quello di aumentare la propria potenza. Quello che vorrei enunciare con forza è un concetto elementare: gli interessi della gente comune non coincidono con quelli dei super ricchi. Per cui ogni politica che favorisca questa potente minoranza  è sicuramente dannosa per il resto della popolazione. Tutte le bugie che da decenni vengono propinate attraverso i media hanno fatto credere alla popolazione che quello attuale sia il migliore dei sistemi possibili, quello che avrebbe portato benessere a tutti. Purtroppo la propaganda è stata così efficace che, nonostante le macerie sociali che ci stanno circondando, solo pochi riescono a comprendere la truffa della quale siamo stati vittime. Eppure il fatto che i ricchi stiano diventando sempre più ricchi, mentre la classe media si sta impoverendo, mi pare un segnale tanto forte quanto incontestabile. Vorrei fare un piccolo esempio della truffa in corso. Le produzioni vengono delocalizzate laddove i costi di produzione sono più bassi, e questo ci consente di acquistare tantissimi prodotti a dei prezzi inferiori a quelli che avremmo se la produzione restasse nel nostro paese. Questo fatto ci viene presentato come uno degli elementi del successo della globalizzazione, e dei vantaggi di cui ognuno di noi può beneficiare. Ma la medaglia ha due facce, e sarebbe saggio dare un'occhiata anche dall'altra parte. Quando acquistiamo un televisore prodotto in Cina crediamo di fare un buon affare, perchè lo stesso televisore prodotto in Italia costerebbe il 40% in più. E non ci rendiamo conto che quel che noi risparmiamo al momento lo pagheremo successivamente con tanto di interessi. Perchè quella differenza di prezzo avrebbe consentito a milioni di connazionali di avere un lavoro ed uno stipendio. Perchè la collettività dovrà farsi carico del peso economico e sociale di milioni di disoccupati. Perchè quelle aziende e quei lavoratori spazzati via dalla sleale concorrenza cinese produrranno un drastico calo delle entrate fiscali e tributarie, con crescente difficoltà da parte dello stato di erogare quei servizi che davvero aumentano il nostro benessere, ad iniziare dalla sanità. Perchè la distruzione del tessuto industriale vuol dire la perdita di conoscenze e di competenze di cui ogni paese non può fare a meno per non dipendere da altri. A suffragio di quanto affermo è sufficiente vedere quel che sta accadendo: nonostante moltissime merci costino sempre meno, la gente è costretta a ridurre i consumi. Perchè la globalizzazione sta arricchendo a dismisura le plutocrazie e sta impoverendo la popolazione, in Italia, USA, Sudafrica, ed ovunque nel mondo. E se non si arresta questa follia la spirale della miseria non si arresterà, se non quando i nostri salari avranno raggiunto quelli dei paese in via di sviluppo. Nel frattempo le plutocrazie, sostanzialmente apolidi, si arricchiranno sempre più, ed acquisiranno sempre maggior potere. I governi nazionali avranno sempre maggiori difficoltà ad arginare la prepotenza di costoro, che imporranno le loro leggi, ovvero tutte quelle misure a loro favorevoli. Questi mostri famelici brevetteranno anche le parole, le piante, i paesaggi, e pretenderanno i diritti su ogni nostro respiro. Ci faranno pagare per passeggiare in un bosco, per bagnarci in mare, per entrare in una città, perchè pian piano riusciranno ad avere concessioni esclusive su tutto, in cambio di quel denaro di cui gli stati avranno sempre più bisogno. Questo capitalismo, ovvero la sua degenerazione, è un mostro che sta divorando secoli di conquiste sociali, e quel benessere di cui la popolazione ha goduto negli ultimi decenni. E' un mostro che va fermato al più presto, anche se probabilmente sarà necessario aspettare che il disastro che ci attende si mostri in tutta la sua drammaticità. Gli uomini, narcotizzati dalla furia consumistica, e rimbambiti dalla propaganda, hanno smarrito quel senso dell'equilibrio senza del quale qualunque società incancrenisce. La follia della finanziarizzazione dell'economia e della vita non sarebbe stata possibile se le persone non avessero alterato la scala dei valori che dovrebbero cementare una società armonica, in sintonia con la natura umana e con il pianeta che ci ospita. Sono convinto che un giorno i posteri guarderanno la nostra epoca e la classificheranno come una grande sbronza della civiltà, una parentesi nella quale l'arroganza umana ha creduto di poter sfidare la natura. La nostra epoca si chiuderà con un immane disastro, e sarà proprio questo disastro a mostrarci in modo evidente la fallacia del nostro modello. Ad iniziare dall'assurdità della crescita infinita, la quale, mentre distrugge le risorse del pianeta ed il suo equilibrio ecologico, non produce una maggiore felicità nelle persone. Per rendervene conto è sufficiente ripensare a quando eravate bambini. Sicuramente eravate più poveri rispetto ai bambini di oggi, ma questo non vi impediva di essere altrettanto, se non più, felici. Per non parlare del fatto che allora i bambini erano molto più sani rispetto ad oggi. Perchè, piuttosto che rimbambirsi di fronte ad un televisore o ad un computer, si stava in strada a giocare fino allo sfinimento. E quel che vale per i bambini vale anche per gli adulti. Occorre essere profondamente stupidi per credere che il benessere aumenti parallelamente all'aumento del consumo di tutti quei beni offerti sul mercato. Esiste una grande quantità di beni che sono per loro natura gratuiti, che non hanno alcun impatto negativo sull'ecosistema, e che sono in grado di soddisfare molti dei nostri bisogni. Ma su ciò che è gratuito i grandi usurai non possono fare la cresta, per cui operano in modo subdolo e continuo affinchè la popolazione sia spinta a consumare sempre di più, in una spirale perversa che porta al più grande paradosso della nostra epoca. In un mondo in cui la produttività è enormemente aumentata, ed in cui la tecnologia consentirà di affrancare l'uomo da una vasta gamma di lavori pesanti o ripetitivi, si pretende che si lavori sempre di più. Questa follia produttiva genera un tale consumo di risorse naturali e produce una tale mole di rifiuti da condurci senz'altro verso il disastro. Ma tutto questo, a chi giova? Sicuramente non giova ai popoli. Nessuno potrebbe onestamente sostenere che oggi un italiano sia più felice o sereno di un suo concittadino di 40 anni fa. Mi pare, anzi, che stia molto peggio. L'uomo contemporaneo, frutto della follia neoliberista, è un frustrato, depresso, asociale. Vive nella perenne precarietà, schiavo del debito e del consumismo, in un contesto sociale sempre più degradato, privo del senso di appartenenza ad una famiglia e ad una comunità, oppresso da una ragnatela di norme, divieti e regole. Ci raccontano che occorre essere liquidi, sempre con la valigia pronta,  disposti a cambiare più volte lavoro, e ad inseguire il successo economico, a scapito di qualunque altro valore Follia, semplice follia i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti, anche se ancora pochi riescono a vederli. E' il trionfo di "mammona", e non potrebbe essere altrimenti, se quelli che ci hanno condotto a questo stato non sono che i rappresentanti del male. Queste plutocrazie, il cui scopo ultimo è il potere totale ed assoluto, stanno trasformando l'uomo in una bestia, privandolo della sua natura attraverso l'illusione del benessere e dell'eterna giovinezza. Quando il denaro diventa la misura di ogni cosa, ogni cosa deve avere un prezzo, e deve poter essere comprata e venduta. E quindi anche l'amore, l'amicizia, la gioia ed i dolori, diventano merci nella disponibilità di chi può pagare. E se non si dispone di denaro ci si indebita, perchè il debito è bello, il debito crea benessere, il debito è indispensabile ad una sana economia. Nascondendone la vera natura: il debito è schiavitù. Una schiavitù indotta attraverso l'impoverimento delle persone, e l'imposizione di oneri ai quali non ci si può sottrarre, costringendo sempre più persone ad indebitarsi. Ed a quelli che si illudono di resistere a questa schiavitù viene imposto il pagamento degli oneri di un debito che lo stato ha contratto per loro conto. E pagheranno, in qualche modo, anche il debito contratto dai comuni, dalle regioni, dalle aziende pubbliche e private. Nessuno deve sottrarsi a questa schiavitù. Il progetto, occorre riconoscerlo, è stato diabolico, e non poteva essere altrimenti, dal momento che coloro che lo hanno studiato non sono che pedine del demonio. Accecati dalla foga consumistica, pochi riescono ad immaginare un mondo diverso da quello attuale, in cui la ricchezza sia equamente distribuita, i consumi materiale ridotti, il tempo dedicato al lavoro dimezzato, ed in cui nessuno sia escluso dal necessario. Un mondo meno competitivo, meno parossistico, meno individualista, meno incerto. Un mondo così sarebbe senz'altro possibile, sempre che il paradigma di riferimento non sia più l'efficienza finanziaria, ma quella sociale.  Ma fin quando l'umanità permetterà a pochi plutocrati di decidere le sorti di ognuno di noi, piuttosto che isolarli e privarli di ogni potere e di ogni ricchezza, l'efficienza sociale sarà messa in secondo piano rispetto all'efficienza finanziaria. Per quanto mi riguarda resto sempre dell'idea che i banchieri andrebbero tutti impiccati.

  • Io lo conoscevo. Si, lo conoscevo quel signore, funzionario di non so quale ente.E lo ricordo ancora quando rideva ogni qualvolta multava qualche piccolo imprenditore per una delle migliaia di norme assurde che usava come munizioni per il suo tiro al piccione. Ed ogni tanto, quando qualcuno di questi piccoli imprenditori chiudeva, lui rideva, soddisfatto. In fondo, diceva, sono tutti dei delinquenti evasori. Che chiudessero tutti. I Non abbiamo bisogno di loro. Compreremo tutti su internet, risparmieremo e tutte le transazioni saranno tracciate. Peccato che le aziende che vendevano su internet prodotti costruiti in qualche sperduto villaggio del terzo mondo da bambini schiavizzati, o da qualche multinazionale che produceva senza il fastidioso fardello del rispetto delle norme e dei lavoratori, non pagava una lira di tasse in Italia, e forse neanche altrove Ma lui continuava a ridere, fin quando il suo stipendio iniziò ad essere tagliato. Man mano che le piccole aziende chiudevano, il gettito tributario e contributivo calava, e non c'erano più soldi per pagare milioni di stipendi inutili. Infatti il governo decise di affidare il lavoro dell'homo ridens ad un centro servizi situato in Malesia. Il nostro funzionario smise completamente di ridere quando fu definitivamente licenziato, e si ritrovò senza alcun reddito tra una massa di disperati. Ma lui, l'homo ridens, a differenza di tanti altri, non sapeva fare un bel nulla. Gli altri, anche con il baratto, in qualche modo si procuravano di che sopravvivere, mentre lui fu costretto a dormire sotto i ponti. Ed è li che fu trovato, morto, senza il suo ebete sorriso stampato sulla faccia da idiota che nemmeno la morte aveva provveduto a cancellare.
Mi pare estremamente diffusa la pratica di sostenere tesi dando per scontata la loro validità, senza che mai ci si fermi a riflettere su di esse. Lo si fa in buona fede, nella convinzione che tali tesi, essendo condivise e ripetute da tutti, non abbiano bisogno di alcuna verifica. Una delle più grandi stupidaggini che sento quotidianamente è quella che riguarda la democrazia nei partiti. Si sostiene, in pratica, che debba essere la base a decidere la politica del partito, i suoi leader, le sue regole. A me, questa tesi, sembra una enorme Kazzata. Succede che una persona, o un gruppo di persone, elabori una propria visione del mondo, e, ritenendola migliore di altre, cerchi di promuoverla e guadagnare consenso. Si forma quindi un partito che, partecipando alle elezioni, spera di ottenere quel suffragio necessario all'attuazione del proprio programma. Mi pare indubbio che solo coloro che condividono quel programma sosterranno, più o meno attivamente, quel partito. Gli altri cercheranno, tra i vari partiti, quello che propone il programma più vicino alla propria visione del mondo. Ora, si vorrebbe pretendere che gli iscritti ad un partito possano, attraverso delle elezioni interne, decidere la politica di quel partito. La cosa mi pare assurda. Se qualcuno non è d'accordo con la linea del partito ne esce, semplicemente. In fondo nessuno impedisce loro di appoggiare un altro partito o di formarne uno nuovo. Coloro che hanno creato quel partito, e ne sono leader, hanno tutto il diritto di deciderne il programma, ed espellere coloro che non lo condividono. E' come se qualcuno costituisse un'associazione per la tutela della "fiorentina", e con il tempo un numero sempre maggiore di iscritti vegetariani pretendesse di cambiare il programma dell'associazione. Mi pare logico che i vegetariani non avrebbero neanche dovuto iscriversi a quell'associazione, e magari costituirne una per la promozione della dieta vegetariana. Un esempio di partito che funziona da duemila anni è il papato. Nessuno ha mai immaginato di far votare i credenti per stabilire le gerarchie della chiesa o la sua dottrina. Tutto ciò è riservato al papa, e coloro che non sono d'accordo possono benissimo cambiare chiesa o fondarne una propria. Ogni nuovo papa viene eletto da un ristretto gruppo di "dirigenti" scelti dal capo precedente. Io credo che se un partito fosse costituito da persone che avessero un preciso programma politico, e davvero credessero in quel programma, non prenderebbero in giro i propri elettori con fantomatiche primarie o oltre stupidaggini pseudo democratiche. I loro capi direbbero: questo è il nostro programma, questi sono i candidati che riteniamo validi, chi è d'accordo ci voti, e gli altri che vadano a fare in Kulo. Se questo non accade è perché in realtà i partiti sono pieni di persone che non hanno alcun ideale, se non quello di ottenere potere. Per cui sono pronti a perorare e sostenere qualunque programma che trovi il consenso degli elettori. Chi ha un ideale, ed è moralmente onesto, non sarà mai disposto a metterlo da parte per accontentare il maggior numero di elettori. Egli direbbe: signori, questa è la mia idea del mondo. Chi è d'accordo è dentro, gli altri fuori dalle palle. Grillo, che pretende di fare il padre padrone del suo movimento, ha assolutamente ragione. Se il programma del movimento dipendesse dai suoi sostenitori, vorrebbe dire che sostanzialmente non esiste alcun programma, e questo sarebbe grave. Per cui mi pare decisamente idiota l'idea di far votare i suoi sostenitori su qualunque argomento, decidendo di volta in volta la linea del partito. Il tal caso non sarebbe un partito, non sarebbe un movimento, non sarebbe nulla, se non un contenitore per raccogliere un diffuso voto di protesta. E con un partito così non si va da nessuna parte. Se io voto per qualcuno pretendo di sapere in modo chiaro cosa ha intenzione di fare su qualunque questione, e non sentirmi dire: deciderà il popolo della rete.  No, tu sei il leader, ed hai il dovere di avere idee chiare e precise, altrimenti non sei che un cialtrone.

Un giorno ebbi un diverbio con un signore che aveva una agenzia immobiliare, il quale sosteneva che per esercitare la sua professione occorresse la laurea, oltre a dover sostenere degli esami molto difficili. La cosa mi lasciò perplesso, perchè immaginavo che invece sarebbe stato sufficiente conoscere alcune leggi ed alcune regole, il tutto con l'impegno di un paio d'ore. Il poveraccio se ne risentì, perchè era convinto che le sue miserabili conoscenze lo ponessero al di sopra della massa, e sopratutto perchè era convinto che tali conoscenze fossero prerogativa di persone dotate di intelligenza eccezionale. Al che gli feci notare che il più grosso mediatore immobiliare del paese, uno che guadagnava venti volte più di lui, avesse la terza elementare. E nonostante l'assenza di qualsiasi titolo di studio, poteva fare da consulente ai notai su faccende ereditarie, servitù, norme contrattuali. E questo era possibile semplicemente in virtù del fatto che fosse particolarmente intelligente, avesse talento ed esperienza. Ho conosciuto tante persone plurititolate che erano, nella sostanza, dei semplici bluff. Eppure ognuna di loro era usa pontificare di economia, commercio, marketing, gestione aziendale. E mentre facevano questo, vivacchiando dello stipendio da bancario o da insegnante, tanti altri semianalfabeti mettevano su aziende che fatturavano milioni di euro, impiegando centinaia di persone, e macinando utili a palate. Il tutto facendo a meno della consulenza di questi pseudo esperti. Capitava, piuttosto, che chiedessero loro consiglio per agire in modo esattamente contrario, tanto sicuri che non ci azzeccassero mai.  Il massimo emblema di questi uomini bluff è rappresentato da Monti. Questo signore passa per un grande economista, e in virtù di questa fama occupa posizioni delicate, che possono influire sulla vita di milioni di persone. Eppure mai, nella sua vita, ha dato prova di avere reali capacità. Voglio dire che Monti non è Giovanni Rana, Amadori, Cremonini, o un qualunque altro imprenditore che ha fatto cose concretamente ponderabili. Monti, e quelli come lui, cosa hanno fatto? Nulla di misurabile con oggettività. Quando penso a questi "esperti" mi vengono in mente i ragazzi che partecipano al grande fratello. Questo li rende famosi, con la conseguenza che vengono chiamati per delle serate dove migliaia di persone vanno per vedere una persona famosa. E più partecipano a queste serate, e più aumenta la loro fama, e più serate fanno, in una spirale assurda. Fin quando qualcuno si ferma un attimo e si chiede: ma, oltre ad essere famoso, questo signore quali qualità possiede? E così mi sembrano i vari Monti. Sono famosi come economisti, e in virtù di questo vengono chiamati per incarichi importanti. Questo li rende ancora più famosi, così da convincere tutti che si tratti di grandi esperti di economia. Ma di tanto in tanto qualcuno come me si ferma e si chiede: ma quale riscontro abbiamo che si tratti davvero di un grande economista? Nessuno. Molti credono di detenere conoscenze precluse ai comuni mortali, la qual cosa non è tanto grave quanto il fatto di credere ciecamente nelle proprie conoscenze. L'assenza del dubbio li rende arroganti e saccenti, al pari di coloro, compresi premi nobel, che avrebbero messo la mano sul fuoco sulla falsità della teoria della relatività, o della geometria non euclidea, o della meccanica quantistica. Vorrei far presente che alle volte una mente semplice, e non intrisa di dogmi, riesce a vedere cose che gli esperti non vedono, resi miopi dalla propria presunzione.

Un giorno ebbi un diverbio con un signore che aveva una agenzia immobiliare, il quale sosteneva che per esercitare la sua professione occorresse la laurea, oltre a dover sostenere degli esami molto difficili. La cosa mi lasciò perplesso, perchè immaginavo che invece sarebbe stato sufficiente conoscere alcune leggi ed alcune regole, il tutto con l'impegno di un paio d'ore. Il poveraccio se ne risentì, perchè era convinto che le sue miserabili conoscenze lo ponessero al di sopra della massa, e sopratutto perchè era convinto che tali conoscenze fossero prerogativa di persone dotate di intelligenza eccezionale. Al che gli feci notare che il più grosso mediatore immobiliare del paese, uno che guadagnava venti volte più di lui, avesse la terza elementare. E nonostante l'assenza di qualsiasi titolo di studio, poteva fare da consulente ai notai su faccende ereditarie, servitù, norme contrattuali. E questo era possibile semplicemente in virtù del fatto che fosse particolarmente intelligente, avesse talento ed esperienza. Ho conosciuto tante persone plurititolate che erano, nella sostanza, dei semplici bluff. Eppure ognuna di loro era usa pontificare di economia, commercio, marketing, gestione aziendale. E mentre facevano questo, vivacchiando dello stipendio da bancario o da insegnante, tanti altri semianalfabeti mettevano su aziende che fatturavano milioni di euro, impiegando centinaia di persone, e macinando utili a palate. Il tutto facendo a meno della consulenza di questi pseudo esperti. Capitava, piuttosto, che chiedessero loro consiglio per agire in modo esattamente contrario, tanto sicuri che non ci azzeccassero mai.  Il massimo emblema di questi uomini bluff è rappresentato da Monti. Questo signore passa per un grande economista, e in virtù di questa fama occupa posizioni delicate, che possono influire sulla vita di milioni di persone. Eppure mai, nella sua vita, ha dato prova di avere reali capacità. Voglio dire che Monti non è Giovanni Rana, Amadori, Cremonini, o un qualunque altro imprenditore che ha fatto cose concretamente ponderabili. Monti, e quelli come lui, cosa hanno fatto? Nulla di misurabile con oggettività. Quando penso a questi "esperti" mi vengono in mente i ragazzi che partecipano al grande fratello. Questo li rende famosi, con la conseguenza che vengono chiamati per delle serate dove migliaia di persone vanno per vedere una persona famosa. E più partecipano a queste serate, e più aumenta la loro fama, e più serate fanno, in una spirale assurda. Fin quando qualcuno si ferma un attimo e si chiede: ma, oltre ad essere famoso, questo signore quali qualità possiede? E così mi sembrano i vari Monti. Sono famosi come economisti, e in virtù di questo vengono chiamati per incarichi importanti. Questo li rende ancora più famosi, così da convincere tutti che si tratti di grandi esperti di economia. Ma di tanto in tanto qualcuno come me si ferma e si chiede: ma quale riscontro abbiamo che si tratti davvero di un grande economista? Nessuno. Molti credono di detenere conoscenze precluse ai comuni mortali, la qual cosa non è tanto grave quanto il fatto di credere ciecamente nelle proprie conoscenze. L'assenza del dubbio li rende arroganti e saccenti, al pari di coloro, compresi premi nobel, che avrebbero messo la mano sul fuoco sulla falsità della teoria della relatività, o della geometria non euclidea, o della meccanica quantistica. Vorrei far presente che alle volte una mente semplice, e non intrisa di dogmi, riesce a vedere cose che gli esperti non vedono, resi miopi dalla propria presunzione.

Il reato di negazionismo è un abominio giuridico e culturale. La sua istituzione contrasta in modo plateale con la carta dei diritti fondamentali dell'uomo, cosa di cui, purtroppo, pochi si rendono conto. Ma c'è qualcosa che dovrebbe allertare le intelligenze più vivaci: il fatto che si possa mettere in dubbio tutto, ad esclusione dell'olocausto. Ed allora occorre chiedersi quale potere abbiano coloro che sono riusciti a far approvare una legge tanto lesiva della stessa dignità di ogni uomo, la negazione del diritto di avere e di esprimere una propria opinione, da poter essere paragonata alle più miserabili norme dell'inquisizione. Ma sopratutto occorre che ognuno si ponga questa semplice domanda: perché si vuole imporre una verità ufficiale ed impedire a chiunque di fare ricerche sull'olocausto e trarre le proprie conclusioni, come fa qualunque storico da che mondo è mondo? Quando il film "la vita è bella" vinse l'oscar rimasi stupito. Non mi pareva un capolavoro da oscar. Ed allora ho avuto il sospetto che quel film rappresentasse uno straordinario strumento di propaganda, come tanti altri film, utile alla causa sionista. Esiste una enorme quantità di film che hanno educato la popolazione a vedere i tedeschi come i carnefici e gli ebrei come le vittime. Oggi, se qualcuno volesse raccontare la storia in un modo diverso, commetterebbe un reato. La storia è quella che ci hanno raccontato, e guai a metterlo in dubbio. Se fino ad oggi ho creduto alla verità storica ufficiale, da questo momento ho il dubbio che molte cose siano false o esagerate, altrimenti non ci sarebbe una legge che impedisse di indagare la verità Nel romanzo "neve" dello scrittore turco Panuk c'è una scena chi mi ha lasciato piuttosto sconvolto. In un locale un cliente sta consumando il suo the, quando gli si avvicina un giovane concittadino. Il giovane inizia ad interrogare il cliente sul fatto che avesse dei dubbi sull'esistenza di Dio. Noi, disse il cliente, crediamo all'esistenza di Dio, ma non possiamo provarla. Allora, disse il giovane, secondo te perché cade la pioggia? Non è forse Dio che la fa cadere? Ma questa non è una prova, disse il cliente. Il giovane, a quel punto, si alzò in piedi ed estrasse una pistola: non puoi mettere in dubbio l'esistenza di Dio di fronte ad una prova così indiscutibile. Poi sparò ed uccise colui che osava dubitare di una verità tanto evidente quanto condivisa da tutti. Ecco! La legge penale sul negazionismo non è dissimile dalla pistola del giovane turco. Oggi è un reato dubitare sulla verità ufficiale dell'olocausto. Domani sarà un reato dubitare sui benefici che un governo mondiale di banchieri apporterà all'umanità. Ogni discussione sarà proibita, ed ogni dubbio punito. Ma la cosa più drammatica è la stupidità degli uomini che non riescono a vedere le cose nella loro essenza, tacciando come nazisti coloro che semplicemente pretendono l'esercizio della libertà di pensiero.

Se il denaro fosse quel che dovrebbe essere, ovvero semplicemente uno strumento nelle mani dello stato, per mezzo del quale sarebbe possibile intervenire e correggere gli sbandamenti dell'economia, non ci sarebbe alcun problema. Il vero problema è il debito, che sta divorando gli stati, gli enti pubblici, le imprese e le famiglie, unitamente ad una immorale distribuzione della ricchezza. Il debito, entro certi limiti benefico e necessario, ha raggiunto dimensioni mostruose, alterando quelli che avrebbero dovuto essere gli equilibri di una sana economia in una sana società. Il debito, per sua natura, sottrae ricchezza alla produzione e la trasferisce alla rendita. sinonimo di parassitismo e di regressione. Questo trasferimento avviene senza sosta, impoverendo la prima, ed arricchendo la seconda. E tanto più la produzione ed il lavoro pagano il loro obolo alla rendita, tanto più si impoveriscono, con la conseguenza che avranno necessità di sempre maggiore debito, arricchendo sempre più la rendita. Quando la rendita, ovvero l'arricchimento non derivante dalla produzione di beni e servizi ma dal semplice trasferimento di ricchezza, raggiunge dimensioni abnormi, l'intero sistema economico entra in agonia. Chi lavora sarà costretto a trasferire parte dei frutti della propria fatica ai parassiti, riducendo i consumi. Avviene, praticamente, che una enorme quantità di ricchezza, prima destinata ai consumi, cerca la remunerazione nella rendita. Con la conseguenza che, contraendo i consumi, si contrae la produzione, e quindi la massa complessiva di ricchezza prodotta diminuisce. E mentre la ricchezza complessiva ed i redditi delle persone si contraggono, cresce il peso degli oneri finanziari, in una spirale che non può che condurre al collasso economico. In questo gioco la stragrande maggioranza della popolazione si impoverisce, mentre una minoranza si arricchisce indecorosamente. E si tratta, continuo a ripeterlo, di gente che non produce alcuna ricchezza, ma che si appropria della ricchezza prodotta da altri. Purtroppo questi parassiti, tanto potenti da controllare i media, sono riusciti a convincere la popolazione che questo sistema truffaldino sia indispensabile al benessere generale, e che non se ne possa fare a meno. Ci raccontano che la colpa è dell'evasione fiscale, del fatto che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, dell'eccessivo numero dei pensionati, della bassa produttività. Tutte fregnacce. E mentre una popolazione artatamente rincoglionita crede a queste colossali balle, i parassiti se la ridono beatamente Giusto per rendersi conto della situazione: i soli interessi sul debito pubblico costano circa 1200 euro a cittadino. In pratica una famiglia di quattro persone, senza gli oneri degli interessi sul debito pubblico, si potrebbe ritrovare in tasca quasi 5000 euro in più ogni anno. Somma quasi sicuramente destinata ai consumi. Invece questa somma va nelle tasche di chi non consuma, ma impiega questo denaro nella speculazione finanziaria. Quanto può durare questo gioco?

I maggiordomi che seggono sugli scranni parlamentari si apprestano, a quanto pare, ad attuare uno dei progetti che stanno tanto a cuore ai loro padroni. Con l'abusato pretesto del debito pubblico si sta pianificando la privatizzazione degli acquedotti, consegnando l'ennesimo monopolio ai grandi fautori del liberismo. Gli stessi che decantano il libero mercato, mentre si assicurano tutti i monopoli possibili, dall'energia alle autostrade, dalle telecomunicazioni alle assicurazioni. In fondo, cosa c'è di più remunerativo che fornire in esclusiva in servizio essenziale, di cui tutti hanno bisogno, alle condizioni ed al prezzo che il monopolista stabilisce? Sempre che non si sia tanto stupidi da credere che lo stato davvero controlli le tariffe a tutela dei consumatori. Adesso vi spiego un bel giochetto:

Le tariffe da applicare dovranno garantire una remunerazione del 5% sugli investimenti. Ma si sa, l'uomo vuole sempre di più. Diciamo pure che una remunerazione del 10% sarebbe più gradita. Ecco quindi l'escamotage: si costituisce una bella società con sede in Lussemburgo che si occuperà di grandi lavori. Nel momento in cui la società che gestisce l'acquedotto deciderà di fare investimenti, ad esempio, di 20 milioni di euro, essendo libera di rivolgersi a chi gli pare, e non obbligata ad alcuna gara di appalto, affiderà quei lavori alla propria società lussemburghese per la cifra di 40 milioni di euro. Otterrà, in tal modo, due grandi vantaggi: da un lato trasferirà utili propri dell'acquedotto alla società estera, sui quali pagherà imposte ridicole, dall'altro si farà remunerare l'investimento su una cifra doppia rispetto a quella realmente investita. Il rendimento effettivo sarà, quindi, del 10%, a spese, naturalmente, dei cittadini che saranno obbligati a pagare a piè di lista. Questi sono giochetti che gli apologeti del liberismo praticano usualmente, sostenendo l'efficienza del libero mercato. E mentre lo fanno, guadagnando alla loro causa immense masse di rincoglioniti, si impadroniscono della vita di tutti noi, rendendoci sostanzialmente schiavi, perchè privi della libertà di decidere in modo davvero libero su una serie sempre più grande di cose indispensabili alla nostra esistenza, dai semi al denaro, dall'acqua al gas. Gli stessi giornali che rappresentano le istanze dei liberisti, e che fanno del libero mercato il loro cavallo di battaglia, vivono grazie ai finanziamenti pubblici, senza dei quali sarebbero costretti a chiudere. E lo fanno, cosa decisamente grave, senza alcun imbarazzo. Ma da questa faccenda ognuno dovrebbe trarre un'altra evidente e lapalissiana conclusione: la sovranità non appartiene al popolo. Infatti il popolo si è espresso in modo chiaro ed inequivocabile sulla faccenda dell'acqua, per mezzo di un referendum che ha visto la schiacciante vittoria di coloro che non vogliono privatizzare gli acquedotti. Ma il governo , obbediente a ben altri padroni, agirà in modo diametralmente opposto alla volontà popolare. Personalmente non mi meraviglio, essendo cosciente che la nostra costituzione non è altro che un pezzo di carta stampata che, al massimo, obbliga a rispettare la forma, ma che non influisce minimamente sulla sostanza. Chi ha il potere, e quindi dispone della forza, fa quel che gli pare. E non ha alcuna difficoltà a giustificare il proprio operato avvalendosi dell'avallo della corte costituzionale, la quale, attraversi semplici sofismi, può dimostrare tutto ed il contrario di tutto, a seconda dell'opportunità, ovvero in ragione della convenienza del vero potere, quello che sta al di sopra del nostro parlamento, come di qualunque altro parlamento dei paesi cosiddetti democratici. Non dobbiamo mai dimenticare quanto accaduto con il finanziamento pubblico ai partiti, abolito attraverso un referendum, e riproposto sotto altro nome. Qualunque persona, anche un ragazzino di dieci anni, sa che si tratta della stessa cosa. Ma la corte costituzionale cosa fa? Chiaramente avalla la nuova legge, suffragandola con una serie di fregnacce farcite di belle parole e di qualche tecnicismo, così, giusto per confondere un  po le idee dei semplici. Un tempo il potere veniva esercitato attraverso la forza delle armi. Ma la forza, allora come oggi, da sola non è sufficiente, ovvero, è difficile esercitare il potere troppo a lungo solo con l'uso della forza. Ecco quindi la necessità di esercitare l'arte dell'imbroglio, plagiando una popolazione tutto sommato fatta di miserabili pecoroni. Era la chiesa lo strumento che il potere utilizzava per imbrogliare il popoli, e fargli accettare la propria condizione di schiavitù. Oggi esiste un sistema estremamente più efficiente, ed è quello che utilizza i media. E' attraverso questi mezzi che il popolo viene costantemente imbrogliato, rincoglionito, plagiato. Si tratta di un mezzo dalla forza formidabile, perché estremamente pervasivo, subdolo, continuo. Il potere, di me e di quelli come me, se ne fotte tranquillamente, perché apparteniamo ad una minoranza ininfluente e tutto sommato innocua. Siamo delle Cassandre che mettono invano in guardia verso il pericolo della perdita della libertà. Ma della libertà, in fondo, la massa non sa assolutamente cosa farsene. Panem et circenses....la storia non cambia.

Il denominatore comune di ogni località italiana è l'enorme quantità di immobili offerti in affitto o in vendita. Vi sono strade, anche importanti, in cui le saracinesche abbassate superano le vetrine di attività ancora operative. L'istinto porterebbe a pensare che la causa di questa debacle sia da imputare al crollo dei consumi. Ma siamo certi che in realtà non esistano altre e più profonde motivazioni? Innanzitutto occorre prendere atto del fatto che si sia costruito a ritmi sostenuti nella convinzione, chiaramente errata, che tutto potesse crescere indefinitivamente. E quindi che la richiesta di spazi commerciali sarebbe rimasta sostenuta per sempre, facendo si che ogni nuovo locale trovasse qualcuno disposto ad affittarlo. Ma ogni persona sana di mente sa che qualunque crescita materiale ha un limite, e che se crescita ci sarebbe stata, essa avrebbe riguardato i beni immateriali che, per loro natura, necessitano di pochissimo spazio fisico. Così come pochi hanno compreso la portata rivoluzionaria di internet, e le sue implicazioni nel settore del commercio. Già oggi molti settori fatturano prevalentemente nell'e-commerce, come l'elettronica, le apparecchiature fotografiche, i libri. E mi pare ragionevole prevedere che il fatturato dei negozi virtuali crescerà costantemente, sottraendo spazio al commercio tradizionale e portando alla chiusura di gran parte dei negozi ancora operativi. Anche l'e-commerce necessita di spazio fisico, ma in misura enormemente inferiore rispetto al commercio tradizionale, a parità di fatturato. Oltre al fatto che il magazzino di un negozio on line può essere ubicato ovunque, e quindi sarà scelto innanzitutto in base al prezzo, e non alla sua posizione strategica, cosa prioritaria, invece, per il commercio tradizionale. Io prevedo che il commercio, nel futuro, si strutturerà secondo quattro precise direttrici: l'e-commerce, la grande distribuzione e le grandi superfici specializzate, il lusso, il piccolo commercio di quartiere. Dell'e-commerce abbiamo già detto. La grande distribuzione e le grandi superfici specializzate mi pare che abbiano già raggiunto il loro punto di saturazione. La loro dimensione complessiva  difficilmente potrà crescere, se non tirando una coperta già sufficientemente corta. Il lusso si concentrerà nel centro delle grandi città, occupando spazi di grande prestigio. Anche in questo caso non mi pare che ci sia spazio per ulteriore espansione. Resta il piccolo commercio di quartiere, dalla lavanderia al panificio, dal ciabattaio alla piccola ferramenta. Si tratta di un settore che non potrà che occupare che una minima parte dei locali disponibili. Lo stesso artigianato non si sottrarrà a questa rivoluzione. A parte il fatto che molte attività artigianali spariranno, spazzate via dall'insostenibilità dei costi e dall'offerta sempre più vasta del grande commercio. Ma anche chi vorrà continuare a produrre lo farà organizzandosi attraverso l'utilizzo di semilavorati reperiti fuori dall'azienda, e quindi limitando la necessità di spazio fisico. Potremmo parlare di un aumento di efficienza del sistema che determinerà una riduzione del fabbisogno di spazio fisico. Proprio qualche giorno fa, discorrendo con un mio amico falegname, gli ho dimostrato che potrebbe realizzare lo stesso fatturato di oggi occupando il 25% dello spazio occupato attualmente. E questo sarebbe possibile semplicemente attraverso una seria riorganizzazione della produzione, avvalendosi prevalentemente di aziende terze in grado di fornirgli i semilavorati di cui avrebbe bisogno. Oltre a risparmiare spazio, otterrebbe anche un aumento della redditività. Anche il settore dei servizi non si sottrarrà alla tendenza di non occupare spazi, o di ridurne l'impiego. Parlavo la settimana scorsa con un ragazzo che lavora per una finanziaria. Mi raccontava che stanno pensando di cambiare sede, per occuparne una molto più piccola ed economica. In fondo, mi ha detto, il lavoro si basa sulle relazioni personali e sulle comunicazioni tramite e-mail. Gli uffici che abbiamo sono completamente inutili. Ciò che facciamo, possiamo farlo da casa con il nostro PC, senza sobbarcarci spese di affitto, tarsu, corrente ed agenzia di pulizie La stessa cosa ho visto fare ad un'agenzia di animazione. Nessuna sede, relazioni diffuse, passaparola, affidabilità. Date queste premesse, mi pare che il settore degli immobili commerciali ed industriali avrà un crollo doloroso. Non riuscire a locare l'immobile, e doverci pagare l'imu, trasformerà ciò che per molti avrebbe dovuto essere un buon investimento, in una vera sciagura. Se siete furbi, cercate di vendere subito. Forse perdete qualcosa, ma se vi attardate perderete molto di più.

A casa ho un gatto, Vasco. Personalmente non amo avere animali in casa. Mia figlia, qualche anno fa, ebbe la felice idea di adottarlo, appena dopo lo svezzamento. Lo tenne con lei fin quando, per una serie di circostanze, rimase in pianta stabile nella mia casa. Vasco viene nutrito, curato, coccolato, protetto. Eppure, ogni qualvolta lo vedo, mi procura grande tristezza. Immagino sempre che Vasco, essendo un gatto, avrebbe avuto il desiderio ed il diritto di vivere secondo la sua natura. Essere libero, scoprire il mondo, accoppiarsi, lottare, fuggire, procurarsi il cibo. Noi che lo accudiamo siamo convinti di fare il suo bene, ma forse Vasco avrebbe semplicemente voluto essere un gatto, nient'altro che un gatto. La cosa più triste è che la sua condizione appare irreversibile. Accudito nella sua prigione dorata, sarebbe incapace di sopravvivere in libertà. E mentre rifletto su queste sciocchezze mi assale il pensiero che la condizione di Vasco sia, in fondo, la metafora della condizione verso la quale l'umanità sta scivolando. In cambio di protezione, sicurezza, benessere, comodità, stiamo pian piano cedendo parti della nostra natura di uomini. Affidiamo le nostre vite a coloro che potranno "accudirci", liberandoci dal gravoso esercizio del libero arbitrio. Anche se dorata, la prigione nella quale ci stiamo rinchiudendo, resta sempre una prigione. Ed un uomo che perde la propria libertà non è più un uomo. Ma di tutto questo la cosa che maggiormente mi sgomenta è il fatto che coloro che accettano questo miserabile destino pretendono che tutti lo condividano, anche coloro che, semplicemente, vorrebbero restate uomini. Forse con meno sicurezze, meno benessere, più responsabilità personale, ma comunque uomini, uomini veri. Qualunque limitazione alle nostre libertà fondamentali, rappresenta un furto alla nostra vera natura. E così come un ladro usa il piede di porco per appropriarsi di ciò che non gli appartiene, così i governi usano il pretesto dell'interesse generale per appropriarsi pian piano delle nostre vite, ovvero per trasformare la nostra natura. Se i governi rappresentano i tradizionali nemici della libertà degli uomini, la vastissima schiera di coloro che suffragano le scelte liberticide dei governi, sono nemici ancora peggiori, e molto più pericolosi. Mentre i governi agiscono per un preciso interesse, la massa degli imbecilli agisce per semplice stupidità, la qual cosa, a mio parere, è più grave e nefasta della disonestà.

Io conosco molti bravi pittori, capaci, tecnicamente, di riprodurre un Caravaggio o qualunque altro autore classico. Quasi sempre, questi pittori, per sopravvivere, realizzano opere mediocri. E questo per una ragione molto semplice: il mercato dell'arte, al di fuori dei circuiti di altissimo livello, pretende opere che costino 2 o 300 euro al massimo. Ora dovete sapere che per realizzare un quadro ad olio fatto bene e di grandi dimensioni occorre tempo, molto tempo. Quando ammiriamo un bel quadro in una chiesa ci dimentichiamo che il suo autore, a suo tempo, impiegò mesi per realizzarlo. La cosa ridicola è che la gente, che pretende di spendere 300 euro per un quadro, vorrebbe che l'opera avesse la stessa qualità delle grandi opere del passato. Un buon quadro, fatto davvero bene e di grandi dimensioni, non può costare meno di 5000 euro. Nel momento in cui si pretende che ognuno, anche l'operaio, abbia in casa dei quadri, è naturale che ci sia una sterminata produzione di spazzatura. Se poi prendiamo atto che la borghesia attuale è composta prevalentemente da gente incolta, maleducata, debosciata, insensibile, pacchiana, appare normale che la società, nel suo complesso, sia decaduta sotto il profilo del gusto e del decoro. E l'assenza di decoro si manifesta in tutti gli aspetti della società, dal linguaggio all'architettura, dall'educazione ai rapporti sociali. In questo contesto va inquadrato il mercato dell'arte che, rivolgendosi ad una borghesia assolutamente incolta ed insensibile, utilizza il marketing per creare valore ad opere decisamente inconsistenti. Il professionista che acquista un quadro, essendo incapace di valutarne la qualità, si affida alle quotazioni, artatamente manipolate dai grandi mercanti. La grande cultura e la grande arte, erano e rimangono questioni di elitè. Sarà il tempo, giudice implacabile, a selezionare i veri grandi artisti, spingendo nel dimenticatoio la gran parte della produzione pseudo artistica attuale.

Sosteneva Indro Montanelli che il melodramma non poteva nascere che in Italia, per la semplice ragione che solo gli italiani avevano la capacità di trasformare un dramma in uno spettacolo cantato. Effettivamente le cose non nascono per caso in un luogo determinato, ma lo fanno per la semplice ragione che ne sono l'espressione più compiuta di quella specifica cultura. Mi è venuta in mente questa considerazione guardando dei ragazzini giocare a "monopoli". Ed effettivamente questo gioco mi pare il frutto naturale della cultura americana. Mi riferisco, in particolare, allo spirito capitalistico tipico della cultura protestante, efficacemente analizzato da Max Weber. Quello spirito secondo il quale il successo economico è segno tangibile della benevolenza di Dio. Nel gioco del monopoli all'inizio vengono distribuiti ai vari giocatori delle somme di denaro e delle cartelle che rappresentano la proprietà di certe caselle. Mentre le somme di denaro sono uguali per tutti, il possesso delle caselle dipende dal caso, con la conseguenza che già le condizioni di partenza del gioco presentano delle asimmetrie. Tali asimmetrie aumentano in ragione delle sortite che di volta in volta il lancio dei dadi produce. Con la conseguenza che, appena dopo qualche giro, si verificano discrete differenze di patrimonio tra i vari giocatori. E qui occorre fare un paio di considerazioni: innanzitutto le differenze di patrimonio tra i vari giocatori sono dovute in larga parte al caso, e solo in minima parte all'abilità. Ma la cosa più importante è che, ad un certo punto del gioco, il destino è già segnato, nel senso che chi si trova in vantaggio rispetto agli altri tende inesorabilmente ad aumentare, giro dopo giro, questo vantaggio. Direi che colui che si trova in una posizione dominante rispetto agli altri, trae tali vantaggi da questa posizione, da sopraffare, in un tempo più o meno lungo, tutti gli altri giocatori. Il gioco si conclude con la distruzione economica di tutti i giocatori, ed eccezione dell'unico vincitore. Mi è parso, questo gioco, la metafora perfetta del capitalismo predatorio che da tempo è stato imposto come modello economico a tutto il mondo. La grande differenza tra il capitalismo americano ed il gioco del monopoli consiste nel fatto che nel capitalismo, oltre al caso, vi è una serie di fattori che concorre a produrre una posizione dominante: si tratta di un misto di corruzione, attività lobbystica, relazioni con il potere politico, imbrogli, manipolazione dell'informazione, e tutte quelle attività spesso illegali, sempre immorali, tese ad agevolare la crescita di potere di una corporation.I sostenitori del libero mercato non riescono a rendersi conto che il vero libero mercato non è che una categoria del pensiero, mentre nella pratica il mercato è sempre manipolato da chi ne ha la possibilità e l'interesse. Con la conseguenza che il giocatore più forte tenderà man mano ad assorbire o a distruggere gli altri competitori, nella ininterrotta ricerca del monopolio, essendo tale condizione l'ideale per massimizzare i profitti. Ma se la ricerca del profitto ha dei risvolti positivi, in quanto stimola l'intraprendenza, i monopoli, di qualunque genere, sono deleteri per la società nel suo complesso. Il monopolista, oltre ad imporre prezzi superiori a quelli naturali in un mercato di vera concorrenza, non è stimolato ad innovare ed a migliorare i prodotti o i servizi. Ecco la ragione per la quale l'intervento pubblico nell'economia appare indispensabile. Il suo compito dovrebbe essere quello di porre degli argini alla brama ed all'avidità delle corporation, e garantire sempre l'esistenza di una vera libera concorrenza. Questo, purtroppo, accade raramente. La forza economica delle grandi compagnie, o degli oligopoli veri o nascosti, è tale da poter manipolare le decisioni dei governi. Emblematico è il caso dell'obbligo per dipendenti e pensionati di avere un conto corrente bancario. Quest'obbligo viene giustificato con la necessità di tracciare i pagamenti per contrastare la fantomatica evasione fiscale. Si tratta, evidentemente, di una balla colossale. Nel momento in cui il datore di lavoro paga il dipendente con un assegno, o da mandato alla propria banca di pagare il dipendente, mi pare che la transazione sia sufficientemente tracciata. Così come è tracciato il pagamento di una pensione da parte dell'ufficio postale. Qual'è, allora, il reale motivo dell'esistenza di questa norma? Semplice: aumentare i profitti delle banche. Perchè per quanto basso possa essere il costo di un conto corrente, ogni anno tra spese, valute, e balzelli vari, la banca raccatterà il suo obolo che, moltiplicato per milioni di italiani, fa una bella cifra. I banchieri, naturalmente, si giustificano sostenendo di fornire un servizio. Peccato che di questo servizio la gran parte dei clienti ne farebbe volentieri a meno. E' un servizio che non serve ai clienti, non serve per la lotta all'evasione fiscale, non serve per contrastare il riciclaggio. Serve esclusivamente a garantire profitti alle banche. Questo discorso, naturalmente, si può estendere ad una infinità di settori. Solo gli ingenui possono credere che i monopoli o gli oligopoli non influenzino in modo determinante le scelte dei governi. E questa è anche la ragione per la quale sostengo che tutti i servizi che per loro natura vengono forniti in regime di sostanziale monopolio, debbano essere pubblici. Lasciare questi servizi ai privati vuol dire veder aumentare le tariffe e diminuire la qualità. Basti studiare quanto accaduto nelle privatizzazioni degli acquedotti, o della rete autostradale. Il capitalismo è una bella cosa, che va però tenuta sempre sotto controllo, perchè, per sua natura, tende a degenerare. E' ciò che è accaduto in questi ultimi tempi, con le conseguenze che stiamo vivendo.

Quando ero ragazzo avevo, come tutti, tanti amici. La gran parte di loro studiava, sperando di raggiungere la laurea. Pochi altri, per le ragioni più varie, abbandonavano gli studi ed andavano ad "imparare un mestiere". Ve ne erano altri ancora che non studiavano e non lavoravano, e che al mio paese vengono definiti "spaccapiazza": nomen omen. Questa schiera di fannulloni, allergica a qualunque impegno e responsabilità, dovendo comunque sopravvivere anche allorquando i genitori sarebbero passati a miglior vita, speravano in un reddito che avesse la valenza di una rendita, senza alcuna relazione tra quanto avrebbero dato e quanto avrebbero ricevuto. Ecco, quindi, la spasmodica ricerca di un "posto". Occorre, a questo punto, aprire una piccola parentesi, onde definire cosa intende, un meridionale, per "posto". Il posto è un privilegio concesso dallo stato ad alcuni eletti, dotati di non meglio definite qualità. Il posto assomiglia ad un impiego, ma a differenza dei normali impieghi, non vi è alcun obbligo di lavorare. Il posto è una rendita garantita vita natural durante, che conferisce al suo beneficiario uno status sociale superiore a quello di tutti coloro che, volenti o nolenti, debbono lavorare davvero. Il posto viene concesso attraverso un antico rito chiamato "concorso". Si tratta di una farsa nella quale una commissione dovrebbe selezionare, tra tanti candidati, quelli dotati di migliori capacità o di migliori titoli. Nella realtà la commissione, prima ancora che il concorso si svolga, dispone della lista dei "vincitori". Tale lista viene formata in ragione del peso politico del raccomandante, e di misteriosi meccanismi di spartizione, noti solo alla ristretta cerchia del sottobosco politico. Lo spacca piazza, quindi, necessita di due cose indispensabili: la raccomandazione ed un titolo di studio. La raccomandazione va conquistata dai genitori dello spacca piazza attraverso un lavoro che dura parecchi anni, in cui la famiglia del raccomandato si adopera, elezione dopo elezione, a fornire al politico designato, il maggior numero di voti. La cosa ridicola è che esistono magistrati che aprono indagini per "voto di scambio", fingendo di non sapere ciò che sanno tutti: nel meridione d'Italia tutto il voto è "voto di scambio". Nel frattempo lo spacca piazza dovrà procurarsi un diploma, uno qualsiasi. A questa ambascia ha provveduto il genio meridionale, con l'istituzione di una miriade di scuole private, dette anche "diplomifici". Si tratta di istituzioni che, in cambio di denaro, forniscono al cliente, nell'arco di due anni, un diploma. L'unica incombenza dello "studente" è quella di presentarsi all'esame di stato, dove gli verrà regolarmente fornito un kit con tutti i compiti già eseguiti, che lui, comunque, riuscirà a sbagliare. Ma questo ha poca importanza, perchè un diploma non si nega a nessuno. Ecco finalmente che lo spacca piazza, munito di quanto occorra alla bisogna, inizia il breve tour dei concorsi pubblici, fino alla conquista dell'agognato "posto". Si tratta quasi sempre di concorsi che riguardano assunzioni nelle varie forze armate dello stato: polizia penitenziaria, carabinieri, poliziotti, esercito, areonautica, guardia di finanza. Non posso affermare che tutti gli appartenenti a questi settori dello stato siano ex spacca piazza, ma ho la certezza che tutti gli spacca piazza che conoscevo sono entrati in questi settori. Fatto sta che questi individui, sostanzialmente mediocri, subiscono una vera e propria metamorfosi, trasformandosi da individui remissivi ed anonimi, in persone spesso arroganti e supponenti, forti della divisa che indossano e che ostentano quasi si trattasse di un trofeo, o di una laurea con lode nella più prestigiosa delle università. Quasi sempre si tratta di brave persone, vittime della loro mediocrità e del lavaggio del cervello che subisce chiunque entri a far parte del mondo militare. Perchè forse pochi sanno che le regole, le abitudini e le consuetudini del mondo normale, sono completamente stravolte nell'ambiente militare, ad iniziare da una regola basilare ed inderogabile: evitare di pensare. Ma c'è qualcosa di ancora peggiore che mina l'equilibrio di tutti i militari, e che genera in loro una profonda frustrazione che spesso scaricano sugli incolpevoli cittadini, vittime sacrificali del loro profondo complesso di inferiorità: il fatto di dover sempre e comunque ubbidire, anche e sopratutto agli ordini più irrazionali e privi di senso. Quasi tutti coloro che entrano nel mondo militare ne vorrebbero fuggire, ma la loro mediocrità, con la conseguente impossibilità di collocarsi nel mondo del lavoro vero, glielo impedisce. La divisa che indossano ed il piccolo potere di cui dispongono, unitamente allo stipendio sicuro, conferiscono allo spacca piazza quei vantaggi ai quali altrimenti dovrebbe rinunciare, e che non riuscirebbe a conquistare fuori dal mondo militare. Il "posto" più ambito dagli spacca piazza è quello nella Guardia di Finanza. Tale corpo gode, nell'immaginario collettivo, di privilegi sconosciuti agli altri corpi armati dello stato. E' convinzione diffusa tra il popolo che i finanzieri facciano la spesa gratis, o comunque godano di sconti imbarazzanti. Si tratta sicuramente di legende metropolitane, anche se esistono indizi che fanno riflettere, come ad esempio il fatto che, dovendo accompagnare le mogli a fare compere, quasi sempre i finanzieri preferiscono indossare la divisa. Molti pensano che ciò accada per intimorire il commerciante, e che la divisa rappresenti una minaccia occulta. Io invece credo che lo facciano perchè orgogliosi di appartenere ad una istituzione che " con spirito di sacrificio e grande senso del dovere, fa propria la missione di garantire la sicurezza dei cittadini e la giustizia sociale". E' lo stesso senso del dovere che impone loro di multare il commerciante che regala una caramella ad un bambino senza emettere lo scontrino, o che multa per la stessa ragione il barista che si prepara e consuma un caffè. Molti si indignano per questo eccesso di zelo, ma sbagliano. Dimenticano che "dura lex, sed lex". Anzi, personalmente proporrei un pubblico encomio a questi militi che "con spirito di sacrificio e grande senso del dovere, fanno propria la missione di garantire la sicurezza dei cittadini e la giustizia sociale". Cosa accadrebbe se non ci fossero i finanzieri a lottare quotidianamente contro il flagello del consumo di sostanze stupefacenti? Sicuramente sarebbe facile per chiunque acquistare droghe, perchè si troverebbero ovunque, di ogni tipo, a qualunque ora. Invece apprendiamo che l'anno passato la Guardia di Finanza ha sequestrato droghe in una quantità corrispondente allo 0,00003% di tutta la droga consumata in Italia. Un risultato strepitoso che viene, giustamente, enfatizzato dalla televisione, dove militi compiaciuti ed impettiti danno ragguagli sull'operazione appena conclusa. Si tratta della stessa enfasi con la quale mostrano i risultati della lotta all'evasione fiscale, evidenziando accertamenti per miliardi di euro. Sarebbe superfluo essere maggiormente esaustivi, comunicando che la maggior parte di quegli accertamenti in sede di contenzioso verrebbero considerati per quel che sono: semplici elucubrazioni di individui fantasiosi e creativi, privi di sostanza logica e coerenza con la realtà. E sarebbe altrettanto superfluo informare che di tutti gli accertamenti che diventano esecutivi non si incassa che la minima parte, per la semplice ragione che i cosiddetti evasori sono molto spesso dei morti di fame che a malapena sbarcano il lunario, ed i guadagni che vengono loro addebitati non sono che il frutto delle false convinzioni degli accertatori, condite con una buona dose di invidia mista a rancore. Torniamo, comunque, a parlare dello spacca piazza divenuto finanziere. Egli, indossando la divisa, dimentica immediatamente di essere un mediocre, semianalfabeta, sfaticato. Come ho già accennato la divisa produce una metamorfosi nella sua personalità. D'improvviso egli crede di detenere qualità e conoscenze precluse ai comuni mortali, avendo frequentato un corso in cui gli viene data una leggerissima infarinatura della normativa tributaria. Il poveraccio non dispone di alcun metro di paragone con il quale poter ponderare la qualità delle sue reali conoscenze, con la conseguenza di credersi un esperto tributarista, e pretendere di contraddire commercialisti con due koglioni grandi come mappamondi. Lo fanno coprendosi di ridicolo, senza rendersene conto, mancando degli strumenti intellettuali per farlo.

E se proprio gli si fa notare, codice alla mano, che si stanno sbagliando alla grande, feriti nel loro orgoglio, inveiscono quanto più possono, giustificandosi con il fatto che il contribuente può comunque fare ricorso. Non si curano, chiaramente, delle conseguenze economiche della loro incompetenza; tanto pagate voi. In fondo, cosa pretendere da chi "con spirito di sacrificio e grande senso del dovere, fa propria la missione di garantire la sicurezza dei cittadini e la giustizia sociale" per il miserabile stipendio di 1800 euro al mese? Sappiamo bene che fanno una vita dura, e giustamente poco dopo i cinquanta vanno in pensione. Mica come quei viziati dei carpentieri, dei contadini, dei camionisti, degli operai, che non subiscono l'usura a cui sono sottoposti i finanzieri, e che giustamente possono lavorare fino a 67 anni Un carpentiere lavora all'aria aperta, con folate gelide che gli sferzano il volto, o con il sole implacabile che brucia la pelle, sollevando pesi notevoli e salendo e scendendo dai ponteggi. Tutto questo lo mantiene in forma, e può considerarsi fortunato. Ma il povero finanziere, tutto il giorno seduto in ufficio, a chiacchierare, bere il caffè, navigare su internet, con l'aria condizionata che potrebbe dargli problemi alla cervicale, o con il riscaldamento che potrebbe procurargli indesiderati sbalzi di temperatura, può egli restare in servizio oltre i 50 anni? Giammai.... La pensione, comunque, è il traguardo di un percorso irto di ostacoli che il finanziere deve seguire. Già dopo una quindicina di anni di servizio ogni finanziere ritiene di aver già dato abbastanza allo stato, e di meritare una sistemazione più consona alla sua esperienza ed ai suoi meriti. Per agevolare l'ottenimento di questa sistemazione il finanziere, come un po tutti i pubblici dipendenti, ricorre ad un istituto geniale, frutto del duro lavoro dei sindacati: la causa di servizio. In pratica si tratta di manifestare qualche malanno, uno qualsiasi, e pretendere il riconoscimento che tale malanno sia una conseguenza del lavoro svolto. Se, ad esempio, il finanziere soffre di una leggera ernia al disco, cercherà di vedersi riconosciuta come causa del suo malanno il fatto che sia stato troppo a lungo seduto. Ma nel caso avesse prestato il suo servizio in piedi, cercherà di addebitare alla abituale postura eretta la causa del suo male. Così come per i diplomi, anche una "causa di servizio" non si nega a nessuno. E' una conquista che consente al pubblico dipendente una serie di vantaggi, essendo quelli già goduti evidentemente insufficienti. Innanzitutto egli potrà godere dall'essere esentato dai servizi più gravosi, imboscandosi in qualche ufficio, o svolgendo attività investigativa un po sui generis, come scoprire i redditi del marito separato che nega gli alimenti alla moglie. Ma potrà anche godere di riposi straordinari, cure termali gratuite con vitto e alloggio pagati dallo stato, periodi più o meno lunghi di malattia, abbuono di alcuni anni lavorativi ai fini della pensione. In Italia abbiamo circa 500 mila persone impiegate nei corpi armati dello stato, ovvero una persona ogni 120. Questo vuol dire che in una cittadina di venti mila abitanti dovremmo avere 180 persone addette alla sicurezza dei cittadini. Una quantità enorme che dovrebbe garantire la sicurezza totale di tutti e l'eradicazione di qualsiasi forma di criminalità. Sappiamo bene come stanno le cose. Ed il vero motivo è che nella pratica solo una piccola frazione di queste persone è realmente operativa. La loro produttività è davvero bassa, ed è ancor più diluita dalla gigantesca percentuale di fancazzisti, volontari o comandati che siano. Comunque, sebbene "con spirito di sacrificio e grande senso del dovere, facciano propria la missione di garantire la sicurezza dei cittadini e la giustizia sociale" anche loro sono uomini, con le loro miserie e le loro debolezze. Con la conseguenza che, avendo bisogno dell'opera di un artigiano, rinunciano volentieri alla fattura in cambio di un interessante sconto. Oppure utilizzano disinvoltamente programmi per computer senza licenza. O badanti e colf in nero. Personalmente ho grande comprensione per le loro piccole debolezze. Quello che non sopporto è il momento in cui pretendono di fare la morale agli altri, ergendosi ad esempio di rettitudine ed onestà, cosa che fanno puntualmente, forse recitando una parte che gli è stata imposta loro malgrado. Uno dei discorsi tipici dei finanzieri riguarda i lavoratori autonomi. Loro sostengono, credendoci davvero, che tutti i lavoratori autonomi guadagnino tantissimi soldi, siano ricchi, facciano la bella vita, a differenza loro che sono sfruttati e sottopagati. Viene quasi spontaneo replicare con la fatidica domanda: ma perchè non avete fatto gli imprenditori? Oppure: perchè non vi licenziate e vi mettete a lavorare in proprio, così da diventare anche voi ricchi e felici? A queste domande il finanziere inizierà a farfugliare una serie di giustificazioni confuse, mostrando evidente imbarazzo. Lo stesso imbarazzo che mostrerà allorquando gli chiederete come mai, piuttosto che indirizzare il proprio figlio laureato verso un'attività imprenditoriale o professionale, faccia carte false per inserirlo tra i servitori dello stato che "con spirito di sacrificio e grande senso del dovere, fanno propria la missione di garantire la sicurezza dei cittadini e la giustizia sociale". Il finanziere in pensione, ancora piuttosto giovane, oltre ad impiegare il proprio tempo prostituendo la propria dignità per "sistemare" il figlio, cercherà qualche lavoretto rigorosamente in nero, giusto per arrotondare la sua magra e meritata pensione. Lui, naturalmente, non si considera un evasore fiscale, in quanto ritiene di aver già dato abbastanza allo stato. Esistono nella vita di ognuno di noi, momenti che ci restano impressi per sempre nella nostra memoria in ragione del fatto che l'emozione che ci hanno suscitato è stata davvero grande. Pochi giorni fa mi è capitato di incontrare un paio di compagni della mia adolescenza che non vedevo da decenni Il primo era uno spaccpiazza, poi divenuto finanziere ed oggi pensionato. E' abbastanza giovanile, mostrando chiaramente di aver vissuto comodamente, senza eccessivi affanni o fatiche. Si gode la sua pensione di 1800 euro al mese, cazzeggiando per il paese e facendo discorsi non meno stupidi di quelli che faceva da ragazzo, con l'unica differenza che oggi li condisce con quell'arroganza tipica di chi crede di appartenere ad una casta di eletti. Il secondo andò ad imparare un mestiere. Lavora da quando aveva 15 anni, e porta sul volto i segni della fatica e dell'usura. Parla poco, e se lo fa ha l'intelligenza della prudenza e del dubbio. E' preoccupato perchè sarà costretto a lavorare altri 12 anni, ma data la crisi e l'età, ha sempre più difficoltà a trovare lavoro. Cammina senza una meta precisa, con lo sguardo spento e rassegnato, e maledice il padre che, credendo di fare una cosa buona, lo mandò a lavorare. Un tarlo divora pian piano la sua mente:" ma se avessi fatto lo spaccpiazza la mia vita sarebbe sicuramente stata migliore, ed oggi farei il signore, e non il miserabile che deve elemosinare qualche giorno di lavoro, semmai la schiena me lo consentirà. Maledetta Italia, dove i fannulloni e gli incapaci hanno mille privilegi, e gli stronzi come me vengono calpestati e derisi."


Quando, per motivi di lavoro, frequentavo Venezia, era normale, una volta arrivati al parcheggio di piazzale Roma, sentirsi dire che non c'era posto. Ma bastava tirare fuori una diecimila lire perchè il posto venisse fuori. All'inizio rimasi stupefatto, pensando che certe abitudini fossero tipiche dei Napoletani. Queste pratiche decisamente levantine si ripetevano in più circostanze, come quando i vari tassisti invitavano i clienti ad un giro turistico che prometteva lunghi ed affascinanti percorsi, che invece si riducevano a scaricare i clienti direttamente a Murano, dove i titolari delle fornaci provvedevano a passare piccole "mazzette" ai loro complici. O ancora nelle varie botteghe che vendevano maschere o vetri autenticamente veneziani che, in realtà, erano fabbricati in Cina. Queste piccole e, se vogliamo, innocenti truffe, erano praticate normalmente, e nascevano probabilmente dalla necessità di sopravvivere in una città che aveva da lungo tempo perso i propri splendori, divenendo anche molto costosa. L'unica vera differenza con i napoletani è che i veneziani non avevano lo stesso garbo e lo stesso calore, cose che in qualche modo attutiscono il dispiacere di essere raggirati. Un'altra sensazione che percepivo girovagando nella città era che si trattasse di una città di mantenuti, nel senso che si sosteneva con l'impiego pubblico, il turismo, e l'industria di Marghera che era sostanzialmente pubblica, e localizzata dov'era, proprio per dare lavoro ad una città economicamente depressa. Ed effettivamente per un paio di secoli il Veneto è stata una delle zone più povere d'Italia. La pellagra era diffusa, l'emigrazione consistente. Tutte le famiglie ricche del sud avevano donne di servizio provenienti dal Veneto. Eppure non mi è mai venuta in mente l'idea che i Veneti fossero geneticamente diversi dagli altri, ottusi o sfaticati, incapaci di essere protagonisti della storia. Se così fosse stato, la repubblica di Venezia non sarebbe mai diventata una delle grandi potenze d'Europa, dominando per secoli i commerci del mediterraneo Purtroppo la scoperta dell'America ha spostato al nord Europa il baricentro dei commerci e degli affari, determinando il lento declino di Venezia e del suo entroterra. Nessuno, che avesse conosciuto il Veneto nel primo dopoguerra, avrebbe immaginato il riscatto economico che questa terra ha avuto nel giro di 50 anni, trasformando lande miserabili in uno dei territori più industrializzati d'Europa. Splendori e cadute sono frequenti nella storia delle nazioni. Pensiamo al mondo arabo tra il settimo ed il decimo secolo, dalla civiltà immensamente superiore a quella dell'Europa, dove i nobili, costantemente analfabeti, vivevano immersi nei pidocchi Oppure all'impero cinese, per millenni avanti a tutti, e che improvvisamente decade, scivolando in due secoli di miseria ed arretratezza. Non esistono popolazioni geneticamente predisposte alla miseria. I geni non contano nulla. Ciò che davvero conta è la cultura che, a sua volta, dipende dalla storia e dalla geografia.  La cultura si forma per rispondere alle esigenze di un determinato contesto che, il più delle volte, non dipende dalle scelte della popolazione stessa, ma da cause esterne. Il clima, la posizione geografica, le risorse del territorio, le invasioni, i giochi e gli interessi geopolitici. Se esistono culture diverse è perchè popolazioni diverse hanno vissuto per secoli vicende diverse in territori diversi. Ne consegue che parlare di superiorità di una cultura rispetto ad un'altra non ha senso. Ognuna risponde alle esigenze di contesti diversi. Così come è semplicistico credere che le stratificazioni culturali si adattino rapidamente alle mutate condizioni di contorno. Spesso i tempi dell'economia e della politica sono più rapidi di quelli necessari perchè la cultura si adatti a questi nuovi contesti. Nella lunga storia del sud Italia, dai Normanni ai Borbone, non è mai accaduto che il regno muovesse guerra ad altri regni. Il sud non è mai stato conquistatore, ma sempre conquistato. E questo innanzitutto per l'assenza dello spirito guerriero tipico di una popolazione profondamente epicurea, paga di se stessa, in in clima mite dalla dieta ricca di frutti di ogni specie. Spirito molto sviluppato in quelle popolazioni il cui territorio offre pochi piaceri e poche risorse. Se gli inglesi hanno conquistato mezzo mondo è perché avevano necessità di trovare risorse al di fuori del proprio territorio, e mercati per le loro produzioni industriali. Il tutto sostenuto dall'etica protestante e dallo spirito capitalistico. Ora occorre capire se sia più apprezzabile un popolo che sottomette altri popoli e li schiavizza, oppure un popolo che non pretendere di rompere i Koglioni a nessuno? Credo che sia questo il discrimine tra due visioni molto diverse tra loro. I meridionali, egregi signori, non avrebbero mai fatto ciò che hanno fatto i civilissimi tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Hanno distrutto l'Europa ed il loro stesso paese, ubbidienti al Dio stato ed alle leggi. Il meridionale, piuttosto che andare in guerra, preferisce godere dei piaceri della vita. Piuttosto che maneggiare carri armati preferisce filosofeggiare. Piuttosto che ammazzare poveri innocenti che vorrebbero solo stare in pace a casa loro, preferisce guardare il mare e goderne il profumo. E' questa l'inciviltà? E' questa l'arretratezza? Ebbene, sono orgoglioso di non essere civile come gli inglesi o come i tedeschi. Sono orgoglioso di appartenere ad un popolo che non ubbidisce ciecamente alle leggi ed allo stato. Sono orgoglioso di appartenere ad una cultura che considera lo stato per ciò che è, una raffinata struttura criminale il cui scopo è quello di consentire a pochi di vivere sulle spalle dei molti. Ma sopratutto, sono stufo di essere considerato un parassita che vive sulle spalle degli altri, soggetto a leggi che non abbiamo deciso, ad uno stato che non è il nostro, e regole buone per altri popoli ed imposte alla nostra civiltà senza il nostro consenso. Abbiamo vissuto benissimo per 2000 anni, senza che nessuno dovesse provvedere a mantenerci. Potremmo farlo ancora, e, se permettete, sarebbe auspicabile.

Normalmente quando nella nostra mente scorrono immagini del nostro passato, ci pare che il mondo di allora fosse migliore di quello di oggi, o che comunque fossimo più felici. E' probabile che, ad essere migliori, eravamo noi, essendo giovani, ed avvezzi a guardare il mondo che ci circondava con quell'entusiasmo e quell'ottimismo che l'avanzare degli anni scema naturalmente. Essendo ben consapevole del limite che il nostro cervello pone all'obiettività della nostra memoria, tendiamo a non dare eccessivo credito ai nostri ricordi, e li utilizziamo solo per bearci nei nostri viaggi onirici percorsi ad occhi aperti. La cosa ci piace, e ne approfittiamo. E così spesso mi sovvengono ricordi di quando ero ragazzo, di quei profumi e di quei sapori che non sento più, e che sopravvivono indelebili nella mia mente. E mentre li riassaporo, godendone, mi desto deluso, convinto che la differenza che percepisco rispetto ai profumi ed ai sapori di oggi, non sia che il frutto dei miei cambiamenti interiori. Ieri, però, è accaduta una cosa che mi ha sorpreso. Insieme ad un amico ci siamo fermati a fare la spesa in un piccolo negozio di alimentari. Il titolare mi ha invitato ad acquistare delle mozzarelle prodotte in una masseria di Cagnano Varano, elogiandone la qualità. Un po' per curiosità, ed un po' per ingordigia, appena fuori dal negozio ho voluto assaggiarne una. All'improvviso, mentre il sapore della mozzarella si spandeva nel palato, ho riprovato lo stesso identico gusto delle mozzarelle che mangiavo da bambino. Credo che questo particolare sapore derivi dal latte utilizzato, e questo, a sua volta, da ciò che le vacche mangiano. Le vacche podoliche di Cagnano Varano, lasciate libere al pascolo, e che si nutrono di decine di diverse erbe selvatiche, certamente producono un latte diverso da quelle allevate in batteria e nutrite con mangimi industriali. Ho così avuto conferma che effettivamente i sapori di molti alimenti di 40 anni fa erano davvero diversi da quelli attuali, e, credetemi, assolutamente migliori. Ancora oggi esistono forni che producono pane cotto a legna, ed anche in questo caso il sapore è decisamente diverso rispetto ai forni elettrici o a metano. Forse un giorno, quando ritroveremo finalmente un po di quella saggezza che abbiamo perso, potremo godere nuovamente di questi dimenticati sapori.

Normalmente quando nella nostra mente scorrono immagini del nostro passato, ci pare che il mondo di allora fosse migliore di quello di oggi, o che comunque fossimo più felici. E' probabile che, ad essere migliori, eravamo noi, essendo giovani, ed avvezzi a guardare il mondo che ci circondava con quell'entusiasmo e quell'ottimismo che l'avanzare degli anni scema naturalmente. Essendo ben consapevole del limite che il nostro cervello pone all'obiettività della nostra memoria, tendiamo a non dare eccessivo credito ai nostri ricordi, e li utilizziamo solo per bearci nei nostri viaggi onirici percorsi ad occhi aperti. La cosa ci piace, e ne approfittiamo. E così spesso mi sovvengono ricordi di quando ero ragazzo, di quei profumi e di quei sapori che non sento più, e che sopravvivono indelebili nella mia mente. E mentre li riassaporo, godendone, mi desto deluso, convinto che la differenza che percepisco rispetto ai profumi ed ai sapori di oggi, non sia che il frutto dei miei cambiamenti interiori. Ieri, però, è accaduta una cosa che mi ha sorpreso. Insieme ad un amico ci siamo fermati a fare la spesa in un piccolo negozio di alimentari. Il titolare mi ha invitato ad acquistare delle mozzarelle prodotte in una masseria di Cagnano Varano, elogiandone la qualità. Un po' per curiosità, ed un po' per ingordigia, appena fuori dal negozio ho voluto assaggiarne una. All'improvviso, mentre il sapore della mozzarella si spandeva nel palato, ho riprovato lo stesso identico gusto delle mozzarelle che mangiavo da bambino. Credo che questo particolare sapore derivi dal latte utilizzato, e questo, a sua volta, da ciò che le vacche mangiano. Le vacche podoliche di Cagnano Varano, lasciate libere al pascolo, e che si nutrono di decine di diverse erbe selvatiche, certamente producono un latte diverso da quelle allevate in batteria e nutrite con mangimi industriali. Ho così avuto conferma che effettivamente i sapori di molti alimenti di 40 anni fa erano davvero diversi da quelli attuali, e, credetemi, assolutamente migliori. Ancora oggi esistono forni che producono pane cotto a legna, ed anche in questo caso il sapore è decisamente diverso rispetto ai forni elettrici o a metano. Forse un giorno, quando ritroveremo finalmente un po di quella saggezza che abbiamo perso, potremo godere nuovamente di questi dimenticati sapori.

   Se io fossi figlio di notaio, avessi avuto una vita agiata e fossi divenuto un professionista con redditi di centinaia di migliaia di euro l'anno, probabilmente avrei difficoltà a comprendere le ragioni di un cinquantenne disoccupato senza alcuna prospettiva di impiego e senza il capitale necessario all'avvio di qualsiasi attività imprenditoriale. Che questo cinquantenne riesca in qualche modo a mettere insieme 1200 euro al mese e ritenga moralmente giusto non privarsi di una cospicua percentuale di tale reddito che andrebbe, ad esempio, nelle tasche del signor Stanca o di quel parlamentare, famoso attore, sempre assente dalle aule parlamentare perchè non gli sono sufficienti 20.000 euro al mese per vivere, non dovrebbe creare turbamenti morali. Esiste una letteratura sconfinata circa lo sperpero del pubblico denaro, e nonostante i pluridecennali proclami della classe politica, le cose non cambiano, anzi peggiorano. 
     Esistono due distinte scuole di pensiero: la prima ritiene che gli interessi dello stato siano sempre e comunque superiori rispetto a quelli di qualunque cittadino: la seconda ritiene che ogni individuo sia portatore di diritti imprescindibili che lo stato, in nessun caso, può intaccare.
     Alla prima categoria appartengono i politici, i magistrati, i grandi funzionari pubblici e tutti coloro la cui ricchezza ed il cui potere promanano direttamente dallo stato. Alla seconda categoria appartengono i comuni mortali che si fanno quotidianamente il mazzo per garantire a se stessi e alla propria famiglia una vita "libera e dignitosa" senza attingere a soldi pubblici o a sussidi o a finanziamenti o a norme legali che garantiscano privilegi e monopoli. Questi comuni mortali non sono contrari al pagamento delle imposte. Questi comuni mortali vorrebbero semplicemente che il carico fiscale non comprendesse quella altissima percentuale rappresentata da sprechi, privilegi, favori, interessi su un debito pubblico frutto di gestione clientelare. Questi comuni mortali vorrebbero che quella percentuale restasse nelle loro tasche, tutto qui.
     Purtroppo gli attacchi indignati contro gli evasori fiscali vengono spesso portati alla pubblica attenzione dai vari Vespa, Santoro, Fazio. Tutta gente che vive del denaro pubblico e che gode di redditi elevati che, anche al netto di un immorale prelievo fiscale, consentono loro un tenore di vita elevato e privo di rinunce. I mezzi di informazione, nella gran parte funzionali ai progetti del potere, si guardano bene dal consentire agli "evasori" di esporre le proprie ragioni. La pletora dei superpagati conduttori televisivi dalla nauseante demagogia buonista e moralista e l'altrettanto indecorosa schiera degli ospiti fissi che a fronte di un gettone di presenza più o meno cospicuo pontificano su tutto, anche e sopratutto su cose di cui non sanno nulla, non rendono un onesto servizio alla Nazione. Piuttosto che gli Sgarbi o le Parietti o i vari Feltri bisognerebbe far sentire l'opinione di coloro che attualmente sono in cassa integrazione, preambolo, particolarmente per chi ha superato la cinquantina, di una disoccupazione senza ritorno. Sarebbe opportuno chiedere a costoro come faranno a pagare il mutuo o l'affitto, o, più semplicemente, come faranno la spesa. Possiamo essere certi che si daranno da fare, in qualche modo dovranno portare la pagnotta a casa. Ma se il loro reddito sarà appena sufficiente per la pura sussistenza come si può credere che queste persone si mettano fiscalmente in regola? 
     Molti credono che le tasse si paghino in base al reddito, e che comunque il reddito appena sufficiente alla pura sussistenza sia esente da imposte. La realtà è diversa. Per quanto piccola sia l'attività svolta e per quanto basso possa essere il reddito percepito esiste una quantità di obblighi ai quali ogni lavoratore autonomo deve aderire. Le racconto, dottor Severgnini, il paradosso della sartina.
     La moglie di un mio amico arrotondava le entrate familiari dedicando alcune ore settimanali a piccoli lavori di cucito. Tale impegno le procurava un reddito di circa 400 euro mensili. Spaventata dall'aver appreso che per la legge era considerata un evasore totale, il vero cancro del nostro Paese, si rivolse ad un commercialista per mettersi in regola. Il commercialista le fece due conti: contributi obbligatori a prescindere dal reddito, assicurazione INAIL a prescindere dal reddito, iscrizione alla camera di commercio, IVA, TARSU, IRAP, e naturalmente la sua parcella mensile per la tenuta delle scritture contabili. Praticamente la somma da versare mensilmente superava il reddito. Le assicuro che non sto inventando niente. La sartina, naturalmente, ha continuato la sua attività "abusiva" non rendendosi forse conto di essere l'artefice del declino di questo Paese.
     Lei, dottor Severgnini, è persona troppo intelligente per non comprendere certe cose, per questo mi meraviglia la sua risposta al mio intervento sul forum "Italians". Voglio credere che un calo degli zuccheri sia la causa dell'errata interpretazione di quanto da me affermato. Che la diffusa evasione fiscale sia l'alibi usato da tutti i governi per giustificare l'elevata pressione fiscale e la cronica carenza di risorse dovute, invece, a ben altre cause, è di una evidenza lapalissiana per chiunque sia dotato di buon senso. Così come è convinzione condivisa che qualunque somma l'erario incameri non sarà mai sufficiente alle bisogna dei nostri amministratori. Temo che chi affermi il contrario sia in malafede con la propria coscienza.
     Pagare le tasse è un dovere ed un segno di civiltà. Amministrare al meglio il denaro pubblico è altrettanto doveroso. Quando uno stato sperpera il pubblico denaro è inadempiente nel confronti dei cittadini, così come lo è nel caso in cui non garantisce al lavoratore un reddito tale da garantirgli una vita "libera e dignitosa" come la Carta Costituzionale impone. In qualsiasi contratto non si può obbligare una delle parti ad adempiere ai propri obblighi se la controparte non fa altrettanto: tutto ciò risulta evidente anche a chi è privo di una laurea in legge.
     Lei mi dice, dottor Severgnini, che si deve prima pagare e poi protestare. Temo di non poter essere d'accordo con lei, sopratutto quando ogni protesta ed ogni indignazione sono risultate vane. L'affermazione di certi principi è giustificata in paesi normali. Ma il nostro le sembra un paese normale?
     Una classe politica ad ogni livello sempre più arrogante e sempre più indecorosa lancia proclami inutili di lotta all'evasione fiscale. Lo fa da sempre, così, tanto per dire qualcosa. La realtà è che il vero contratto sociale sul quale si basa questo Paese consiste in questo: lasciate che noi facciamo gli affari nostri e noi lasciamo che voi facciate gli affari vostri. Lasciateci rubare, e noi vi lasceremo rubare. Noi vi tartassiamo di tasse, ma voi evadete pure. E se qualche volta ci sentite gridare non preoccupatevi, è tanto per fare scena....
                      
     Con immutata stima, Giorgio Fracchiolla


Esistono persone che riescono a comprendere certe cose grazie a profonde e lunghe riflessioni, al fatto di aver acquisito una grande mole di informazioni, ad una grande intelligenza analitica. Esistono altresì persone che riescono a comprendere le stesse cose semplicemente per istinto, per una sorta di sesto senso. Anche se attraverso percorsi diversi, questi due gruppi giungono alle medesime conclusioni. Ecco la ragione per la quale si va sempre più diffondendo la convinzione che ci stiamo avvicinando ad uno di quei momenti cruciali della storia che segna lo spartiacque tra due epoche. Su cosa accadrà in quel momento, e su come evolveranno le cose, si possono fare innumerevoli ipotesi, tutte verosimili e tute possibili. Ma si tratta, appunto, di ipotesi. Saranno le scelte degli uomini a determinare il corso degli eventi, e sappiamo bene che nulla è più incerto del comportamento umano.

La gente comune si sente impotente nel determinare il destino dei popoli, e crede, in parte a ragione, che a determinare le cose saranno le scelte di una minoranza di uomini, ovvero di coloro che appartengono all'elité mondiale ed occupano le stanze dei bottoni. Mentre si diffonde la consapevolezza che un'immane catastrofe stia per abbattersi sul mondo, parallelamente si va diffondendo un fatalismo che pareva estinto, annichilito dal materialismo della società dei consumi.Al termine della grande ubriacatura degli ultimi decenni, in cui tutti hanno creduto nella crescita senza limiti, e nella possibilità di aumentare di anno in anno i propri redditi, ci ritroviamo frastornati e delusi. Perché l'amara realtà è che la crescita ha dei limiti, ma sopratutto che il pianeta non potrebbe sopportare  che lo stesso livello di consumi dei cittadini occidentali fosse raggiunto da tutti i popoli del nostro sempre più piccolo mondo. E così la crescita economica dei paesi poveri produce un livellamento verso il basso al quale non siamo preparati. Purtroppo la convinzione della crescita continua ha stimolato l'indebitamento, degli stati, delle aziende, delle famiglie. Sappiamo che la sostenibilità di un debito si basa sulla crescita. Ma se la crescita si arresta il sistema entra in crisi. E così per supplire all'insufficienza della crescita dell'economia reale si è creata una crescita fittizia, fatta di fuffa, ovvero di finanza. Ma la crescita prodotta dagli strumenti finanziari, per sua intrinseca natura, è pura illusione. Una casa è sempre una casa, un quintale di grano è sempre un quintale di grano, l'abilità di un chirurgo resta sempre l'abilità di un chirurgo. Ma il valore della fuffa finanziaria è nullo. Basti considerare che per ogni credito esiste un debito dello stesso valore. E per quanto possa essere grande il valore dei crediti, altrettanto grande sarà quello dei debiti. Per assurdo posso firmare un trilione di cambiali al mio amico Antonio, e ricevere da lui cambiali di pari importo. E lo potremmo fare in un attimo, senza produrre nulla di concreto. E potremmo sostenere che entrambi deteniamo una ricchezza finanziaria complessiva di due trilioni. E' evidente che si tratta di una colossale cazzata. E così tutta la ricchezza finanziaria mondiale è sostanzialmente inesistente, nel senso che non si tratta di ricchezza, ma più semplicemente di uno strumento per depredare i popoli. Esistono creditori e debitori. Ma qualunque credito, nel momento in cui il debitore diventa insolvente, diviene carta straccia. Ora la situazione è tale che da un momento all'altro il debitore potrebbe diventare insolvente, mentre il creditore farà di tutto per salvaguardare il suo capitale. Userà qualunque mezzo il suo potere gli consentirà, usando gli stati come gendarmi al proprio servizio. Sarà inutile. Quando gli insolventi sono troppi, e non hanno nulla da perdere, i creditori falliscono. Così è sempre stato, e così sarà. In un mondo che ha perso il suo equilibrio, con la gran parte degli stati in bancarotta, con la perenne incertezza prodotta dalle politiche neo liberiste, con una disoccupazione in continuo aumento, con diseguaglianze sempre più accentuate, con la corruzione e la disonestà che hanno raggiunto livelli vergognosi nelle classi dirigenti di tutto il mondo, con il carattere predatorio che pregna oramai ogni progetto economico, sempre più persone scelgono di uscire, per quanto possibile, dal sistema. E lo fanno per la semplice ragione di aver perso ogni speranza nel fatto che le cose si rimetteranno a posto. Ogni loro sforzo, ogni loro sacrificio, ogni loro rinuncia, non servirebbe che ad alimentare le ricchezze di una minoranza di privilegiati che, a differenza della classe media, non è stata minimamente intaccata dalla crisi che stiamo vivendo. La sterminata pletora di parassiti che vivono succhiando il sangue allo stato pare completamente indifferente al dramma di milioni di cittadini costretti, attraverso le tasse, ad appagare la loro brama. Che si tratti di alti magistrati, di manager pubblici, di dirigenti di un certo rango, e di tutta la pletora di faccendieri che ruotano intorno alla politica, non fa alcuna differenza. Nonostante i loro elevati, e spesso ingiustificati, redditi, pretendono sempre di più, e lo fanno senza il minimo senso di vergogna. Uno come Monti, non certo un disgraziato, non si pone il problema morale di percepire vita natural durante lo stipendio di senatore a vita, che corrisponde a quanto guadagna una decina di lavoratori che davvero si fanno il mazzo. Lui, e quelli della sua risma, non sono affatto turbati dal fatto che, probabilmente, per garantirgli centinaia di migliaia di euro, se non milioni, tantissimi disgraziati perderanno  la casa, frutto di grandi sacrifici loro, o dei loro genitori. Quante mamme piangeranno perchè i vari Monti possano frequentare i migliori ristoranti e pasteggiare con vini da 100 euro a bottiglia? Queste riflessioni vengono fatte da sempre più persone, e spesso spingono a prendere una decisione drastica: uscire dal sistema. La principale motivazione è questa: debbo diventare un pezzente? Debbo rinunciare a tante cose? Non debbo possedere nulla? Allora che muoia Sansone con tutti i filistei. Essere nullatenenti comporta degli svantaggi evidenti, ma presenta anche i suoi lati positivi. E se proprio uno deve pagare il conto della propria povertà, perchè non goderne anche i vantaggi? Tutti coloro che decidono di uscire dal sistema si trovano, ad un certo punto della loro vita, di fronte al grande dilemma: ammazzarmi di lavoro e vivere costantemente in affanno, restando un miserabile, oppure restare miserabile, ma almeno lavorare poco e godermi la vita con tutte quelle cose che non si acquistano con il denaro? E' chiaro che ogni persona preferirebbe vivere agiatamente, disporre di un buon reddito, pagare le tasse e spendere il proprio denaro. Ma quando le cose precipitano, il reddito diventa incerto ed insufficiente, e non si vede alcuna prospettiva di miglioramento, mentre lo stato continua a sperperare ed a garantire ad una minoranza privilegi indecorosi, la scelta diventa obbligata: si smette di pagare. E mi pare che sia una scelta di grande intelligenza. Qualcuno potrebbe sostenere che in questo modo lo stato collasserebbe. Ma ad un miserabile cosa interessa del collasso dello stato, dal momento che quello stato non gli è di alcuna utilità? Chi teme questa evenienza sono coloro che prosperano grazie allo stato, e non certo chi ogni mattina deve alzarsi ed ingegnarsi per guadagnare la pagnotta. Come ho sostenuto poco fa, esistono dei limiti, sempre. Ogni cosa ha un limite, oltrepassato il quale le cose si mettono male. Basta verificare quel che sta accadendo con la pressione fiscale: tanto più le tasse aumentano, e tanta più gente smette di pagare, per manifesta impossibilità. Con la conseguenza che il gettito fiscale, piuttosto che aumentare, tende a diminuire. Si tratta di un fenomeno i cui effetti tardano a manifestarsi per la semplice ragione che molti hanno da perdere, e nella speranza di salvare i propri beni danno fondo alle loro risorse ed ai loro risparmi. Ma è una cosa che non potrà durare a lungo. Ho diversi amici che si sono visti ipotecare le case da Equitalia. E la gran parte di loro su quelle case aveva già un mutuo. Cose è accaduto? Semplicemente nessuno è tanto stupido da continuare a pagare un mutuo sapendo che alla fine la casa sarà comunque pignorata da equitalia, il cui credito, nel frattempo, avrà raggiunto importi impossibili. Ed allora, saggiamente, hanno smesso di pagare anche la banca. Ma uno con la casa pignorata, con sofferenze bancarie, con equitalia sul collo, diventa un paria Ed un paria, impossibilitato a possedere qualunque cosa fino alla fine dei suoi giorni, cosa fa? Semplicemente smette di pagare qualunque cosa non sia vitale. In fondo, avere un debito di 50 mila euro o uno di 2 milioni è la stessa cosa, quando vivi alla giornata. Sei fuori dal sistema, semplicemente Naturalmente chi può far fronte ai propri debiti, lo fa. Ma nell'attuale contesto, nel quale diventa davvero difficile guadagnare il necessario per la sopravvivenza, pagare certi debiti e rimettersi in regola è praticamente impossibile. Ed allora esistono due strade: o essere tanto stupidi da ammazzarsi, oppure essere tanto intelligenti da adattarsi alla nuova condizione, e goderne i vantaggi. Ecco come si esce dal sistema, in attesa che il sistema crolli. Perchè non esiste alcuna possibilità che le cose possano continuare a lungo in questo modo. Sempre più persone  saranno costrette a gettare la spugna. E nessuno stato può pensare di prosperare quando percentuali sempre più grandi della popolazione si ritrovano nelle condizione che ho appena descritto. Quando sento che Equitalia vanta crediti per 800 miliardi, e non riesce a riscuoterli, mi sconpiscio dalle risate. Perchè chi aveva da perdere ha pagato, e quelli che non hanno pagato sono coloro che non hanno nulla, e che mai pagheranno. Anche la famigerata lotta all'evasione fiscale si sta rivelando per ciò che è: una grande bufala. L'incasso, rispetto alle somme accertate, si aggira intorno al 5%, mentre il debito pubblico aumenta, ogni anno, di venti volte tanto. Quello che vedo, guardandomi intorno, è un grande aumento del lavoro nero e dell'evasione fiscale. Mai, come in questo momento, si sono effettuate tante transazioni in contanti. I negozi chiudono a ritmi vertiginosi, desertificando interi quartieri. Su ogni serranda abbassata fa bella mostra un cartello "affittasi" o "vendesi" deteriorato dal tempo. Gli artigiani cessano la partita iva e lavorano in nero. Spesso lasciano i locali in cui esercitavano il mestiere per ritirarsi in locali più piccoli e dai costi minimi. Le poche aziende di una certa dimensione hanno chiuso, tutte! Trovare un lavoro come dipendente, sia per i giovani che per quelli di una certa età, non è difficile, ma semplicemente impossibile. Gli edili, una delle categorie maggiormente colpite, non lavorano da anni, e sopravvivono con l'aiuto dei genitori e dei suoceri. In una città di 60 mila abitanti non c'è un solo cantiere aperto. Girando in città si percepisce un clima da catastrofe imminente. I commercianti, sull'uscio dei loro negozi, mostrano facce funeree, più esplicite di un trattato di economia. Un terzo delle auto gira senza assicurazione, e spesso si tratta di auto in fermo amministrativo. Ascoltando gli umori della gente comprendo come mai durante la guerra, con i bombardamenti ed il pane razionato, i cinema e le sale da ballo fossero piene. Quando uno non vede un futuro, e teme, anzi, la catastrofe, cerca di godersi la vita più che può, sperando di dimenticare, per qualche ora, le proprie miserie. La gente è disillusa, e non crede più a niente. La fiducia nello stato e nelle istituzioni è praticamente nulla, ed il comportamento collettivo sembra tornare a quello del dopoguerra, in cui ognuno cercava di arrangiarsi. Prima il pane, poi lo stato. E se si guadagna solo il pane che lo stato vada a farsi fottere. Stanchi delle perpetue promesse, regolarmente disattese, e nauseati dall'immutabile teatrino della politica, ci si affida al fato, confidando nella buona sorte. Intanto la percezione dello sfascio è forte e concreta. Tutte le strade sono in uno stato pietoso, da paese da terzo mondo. Il verde pubblico è in stato di abbandono. Innumerevoli gli edifici pubblici iniziati e mai finiti, e quelli in uso cadono a pezzi dopo pochi anni, degradando per totale mancanza di manutenzione. Il servizio di raccolta rifiuti funziona sempre peggio, e più aumenta la tarsu, più sporcizia e degrado aumentano. I comuni, all'affannosa ricerca di denaro, si inventano di tutto, dalle multe ai parcheggi a pagamento, dall'aumento vertiginoso delle tasse di occupazione suolo pubblico a quelle per i passi carrai. Tutti si aspettano che tra breve venga messa una tassa sulla circolazione pedonale. Eppure i soldi non bastano mai, e ne occorrono sempre di più. Ma mentre le tasse ed i balzelli aumentano, i redditi delle persone diminuiscono, e sempre più cittadini non riescono a far fronte ai pagamenti. La situazione è esplosiva, molto peggiore di quanto possa credere chi guarda le cose con distacco e superficialità. Ed è destinata a finire con un gigantesco botto. In questo contesto sempre più persone gettano la spugna. Non ce la fanno più. Ed allora succeda quel che deve succedere! Intanto fanno quel che possono, cercando di guadagnare il necessario per sopravvivere, e non si curano più della contabilità, delle tasse, delle scadenze. E se alla fine del mese gli resta qualcosa in tasca, la utilizzano per godersi la vita o togliersi qualche sfizio E' una schiera che si va sempre più ingrandendo, e contro la quale lo stato, con i suoi strumenti, è totalmente impotente. Ed infatti succede che le grinfie dello stato si concentrano esclusivamente su chi possiede qualcosa, anche se si tratta di persone che hanno sempre pagato le tasse. Un pretesto per eseguire un accertamento si trova sempre. Intanto si fa cassa, e poi il contribuente ricorrerà, aumentando la schiera dei creditori a babbo morto. Fra non molto pretenderanno un'acconto sulle tasse dei prossimi anni, e metteranno una patrimoniale, e faranno un prelievo forzoso sui conti correnti. Ma nulla riuscirà ad evitare il collasso. Ed allora, quelli che sono usciti dal sistema, non si curano più di nulla, e non guardano neanche più la televisione. Fra un po sarà primavera, e sarà bello andare in campagna, e godere dei primi tepori e del risveglio della natura. I fuoriusciti vi si recheranno con una certa frequenza, banchetteranno con quattro soldi e si stenderanno sull'erba per farsi carezzare dalla brezza. Ed ozieranno, alla faccia di tutti quelli che vorrebbero vivere sul loro lavoro. Ozieranno e guarderanno a valle, per vedere il passaggio di tutti i cadaveri di coloro che non hanno ancora capito un kazzo.

Esistono persone che riescono a comprendere certe cose grazie a profonde e lunghe riflessioni, al fatto di aver acquisito una grande mole di informazioni, ad una grande intelligenza analitica. Esistono altresì persone che riescono a comprendere le stesse cose semplicemente per istinto, per una sorta di sesto senso. Anche se attraverso percorsi diversi, questi due gruppi giungono alle medesime conclusioni. Ecco la ragione per la quale si va sempre più diffondendo la convinzione che ci stiamo avvicinando ad uno di quei momenti cruciali della storia che segna lo spartiacque tra due epoche. Su cosa accadrà in quel momento, e su come evolveranno le cose, si possono fare innumerevoli ipotesi, tutte verosimili e tute possibili. Ma si tratta, appunto, di ipotesi. Saranno le scelte degli uomini a determinare il corso degli eventi, e sappiamo bene che nulla è più incerto del comportamento umano.
La gente comune si sente impotente nel determinare il destino dei popoli, e crede, in parte a ragione, che a determinare le cose saranno le scelte di una minoranza di uomini, ovvero di coloro che appartengono all'elité mondiale ed occupano le stanze dei bottoni. Mentre si diffonde la consapevolezza che un'immane catastrofe stia per abbattersi sul mondo, parallelamente si va diffondendo un fatalismo che pareva estinto, annichilito dal materialismo della società dei consumi.Al termine della grande ubriacatura degli ultimi decenni, in cui tutti hanno creduto nella crescita senza limiti, e nella possibilità di aumentare di anno in anno i propri redditi, ci ritroviamo frastornati e delusi. Perché l'amara realtà è che la crescita ha dei limiti, ma sopratutto che il pianeta non potrebbe sopportare  che lo stesso livello di consumi dei cittadini occidentali fosse raggiunto da tutti i popoli del nostro sempre più piccolo mondo. E così la crescita economica dei paesi poveri produce un livellamento verso il basso al quale non siamo preparati. Purtroppo la convinzione della crescita continua ha stimolato l'indebitamento, degli stati, delle aziende, delle famiglie. Sappiamo che la sostenibilità di un debito si basa sulla crescita. Ma se la crescita si arresta il sistema entra in crisi. E così per supplire all'insufficienza della crescita dell'economia reale si è creata una crescita fittizia, fatta di fuffa, ovvero di finanza. Ma la crescita prodotta dagli strumenti finanziari, per sua intrinseca natura, è pura illusione. Una casa è sempre una casa, un quintale di grano è sempre un quintale di grano, l'abilità di un chirurgo resta sempre l'abilità di un chirurgo. Ma il valore della fuffa finanziaria è nullo. Basti considerare che per ogni credito esiste un debito dello stesso valore. E per quanto possa essere grande il valore dei crediti, altrettanto grande sarà quello dei debiti. Per assurdo posso firmare un trilione di cambiali al mio amico Antonio, e ricevere da lui cambiali di pari importo. E lo potremmo fare in un attimo, senza produrre nulla di concreto. E potremmo sostenere che entrambi deteniamo una ricchezza finanziaria complessiva di due trilioni. E' evidente che si tratta di una colossale cazzata. E così tutta la ricchezza finanziaria mondiale è sostanzialmente inesistente, nel senso che non si tratta di ricchezza, ma più semplicemente di uno strumento per depredare i popoli. Esistono creditori e debitori. Ma qualunque credito, nel momento in cui il debitore diventa insolvente, diviene carta straccia. Ora la situazione è tale che da un momento all'altro il debitore potrebbe diventare insolvente, mentre il creditore farà di tutto per salvaguardare il suo capitale. Userà qualunque mezzo il suo potere gli consentirà, usando gli stati come gendarmi al proprio servizio. Sarà inutile. Quando gli insolventi sono troppi, e non hanno nulla da perdere, i creditori falliscono. Così è sempre stato, e così sarà. In un mondo che ha perso il suo equilibrio, con la gran parte degli stati in bancarotta, con la perenne incertezza prodotta dalle politiche neo liberiste, con una disoccupazione in continuo aumento, con diseguaglianze sempre più accentuate, con la corruzione e la disonestà che hanno raggiunto livelli vergognosi nelle classi dirigenti di tutto il mondo, con il carattere predatorio che pregna oramai ogni progetto economico, sempre più persone scelgono di uscire, per quanto possibile, dal sistema. E lo fanno per la semplice ragione di aver perso ogni speranza nel fatto che le cose si rimetteranno a posto. Ogni loro sforzo, ogni loro sacrificio, ogni loro rinuncia, non servirebbe che ad alimentare le ricchezze di una minoranza di privilegiati che, a differenza della classe media, non è stata minimamente intaccata dalla crisi che stiamo vivendo. La sterminata pletora di parassiti che vivono succhiando il sangue allo stato pare completamente indifferente al dramma di milioni di cittadini costretti, attraverso le tasse, ad appagare la loro brama. Che si tratti di alti magistrati, di manager pubblici, di dirigenti di un certo rango, e di tutta la pletora di faccendieri che ruotano intorno alla politica, non fa alcuna differenza. Nonostante i loro elevati, e spesso ingiustificati, redditi, pretendono sempre di più, e lo fanno senza il minimo senso di vergogna. Uno come Monti, non certo un disgraziato, non si pone il problema morale di percepire vita natural durante lo stipendio di senatore a vita, che corrisponde a quanto guadagna una decina di lavoratori che davvero si fanno il mazzo. Lui, e quelli della sua risma, non sono affatto turbati dal fatto che, probabilmente, per garantirgli centinaia di migliaia di euro, se non milioni, tantissimi disgraziati perderanno  la casa, frutto di grandi sacrifici loro, o dei loro genitori. Quante mamme piangeranno perchè i vari Monti possano frequentare i migliori ristoranti e pasteggiare con vini da 100 euro a bottiglia? Queste riflessioni vengono fatte da sempre più persone, e spesso spingono a prendere una decisione drastica: uscire dal sistema. La principale motivazione è questa: debbo diventare un pezzente? Debbo rinunciare a tante cose? Non debbo possedere nulla? Allora che muoia Sansone con tutti i filistei. Essere nullatenenti comporta degli svantaggi evidenti, ma presenta anche i suoi lati positivi. E se proprio uno deve pagare il conto della propria povertà, perchè non goderne anche i vantaggi? Tutti coloro che decidono di uscire dal sistema si trovano, ad un certo punto della loro vita, di fronte al grande dilemma: ammazzarmi di lavoro e vivere costantemente in affanno, restando un miserabile, oppure restare miserabile, ma almeno lavorare poco e godermi la vita con tutte quelle cose che non si acquistano con il denaro? E' chiaro che ogni persona preferirebbe vivere agiatamente, disporre di un buon reddito, pagare le tasse e spendere il proprio denaro. Ma quando le cose precipitano, il reddito diventa incerto ed insufficiente, e non si vede alcuna prospettiva di miglioramento, mentre lo stato continua a sperperare ed a garantire ad una minoranza privilegi indecorosi, la scelta diventa obbligata: si smette di pagare. E mi pare che sia una scelta di grande intelligenza. Qualcuno potrebbe sostenere che in questo modo lo stato collasserebbe. Ma ad un miserabile cosa interessa del collasso dello stato, dal momento che quello stato non gli è di alcuna utilità? Chi teme questa evenienza sono coloro che prosperano grazie allo stato, e non certo chi ogni mattina deve alzarsi ed ingegnarsi per guadagnare la pagnotta. Come ho sostenuto poco fa, esistono dei limiti, sempre. Ogni cosa ha un limite, oltrepassato il quale le cose si mettono male. Basta verificare quel che sta accadendo con la pressione fiscale: tanto più le tasse aumentano, e tanta più gente smette di pagare, per manifesta impossibilità. Con la conseguenza che il gettito fiscale, piuttosto che aumentare, tende a diminuire. Si tratta di un fenomeno i cui effetti tardano a manifestarsi per la semplice ragione che molti hanno da perdere, e nella speranza di salvare i propri beni danno fondo alle loro risorse ed ai loro risparmi. Ma è una cosa che non potrà durare a lungo. Ho diversi amici che si sono visti ipotecare le case da Equitalia. E la gran parte di loro su quelle case aveva già un mutuo. Cose è accaduto? Semplicemente nessuno è tanto stupido da continuare a pagare un mutuo sapendo che alla fine la casa sarà comunque pignorata da equitalia, il cui credito, nel frattempo, avrà raggiunto importi impossibili. Ed allora, saggiamente, hanno smesso di pagare anche la banca. Ma uno con la casa pignorata, con sofferenze bancarie, con equitalia sul collo, diventa un paria Ed un paria, impossibilitato a possedere qualunque cosa fino alla fine dei suoi giorni, cosa fa? Semplicemente smette di pagare qualunque cosa non sia vitale. In fondo, avere un debito di 50 mila euro o uno di 2 milioni è la stessa cosa, quando vivi alla giornata. Sei fuori dal sistema, semplicemente Naturalmente chi può far fronte ai propri debiti, lo fa. Ma nell'attuale contesto, nel quale diventa davvero difficile guadagnare il necessario per la sopravvivenza, pagare certi debiti e rimettersi in regola è praticamente impossibile. Ed allora esistono due strade: o essere tanto stupidi da ammazzarsi, oppure essere tanto intelligenti da adattarsi alla nuova condizione, e goderne i vantaggi. Ecco come si esce dal sistema, in attesa che il sistema crolli. Perchè non esiste alcuna possibilità che le cose possano continuare a lungo in questo modo. Sempre più persone  saranno costrette a gettare la spugna. E nessuno stato può pensare di prosperare quando percentuali sempre più grandi della popolazione si ritrovano nelle condizione che ho appena descritto. Quando sento che Equitalia vanta crediti per 800 miliardi, e non riesce a riscuoterli, mi sconpiscio dalle risate. Perchè chi aveva da perdere ha pagato, e quelli che non hanno pagato sono coloro che non hanno nulla, e che mai pagheranno. Anche la famigerata lotta all'evasione fiscale si sta rivelando per ciò che è: una grande bufala. L'incasso, rispetto alle somme accertate, si aggira intorno al 5%, mentre il debito pubblico aumenta, ogni anno, di venti volte tanto. Quello che vedo, guardandomi intorno, è un grande aumento del lavoro nero e dell'evasione fiscale. Mai, come in questo momento, si sono effettuate tante transazioni in contanti. I negozi chiudono a ritmi vertiginosi, desertificando interi quartieri. Su ogni serranda abbassata fa bella mostra un cartello "affittasi" o "vendesi" deteriorato dal tempo. Gli artigiani cessano la partita iva e lavorano in nero. Spesso lasciano i locali in cui esercitavano il mestiere per ritirarsi in locali più piccoli e dai costi minimi. Le poche aziende di una certa dimensione hanno chiuso, tutte! Trovare un lavoro come dipendente, sia per i giovani che per quelli di una certa età, non è difficile, ma semplicemente impossibile. Gli edili, una delle categorie maggiormente colpite, non lavorano da anni, e sopravvivono con l'aiuto dei genitori e dei suoceri. In una città di 60 mila abitanti non c'è un solo cantiere aperto. Girando in città si percepisce un clima da catastrofe imminente. I commercianti, sull'uscio dei loro negozi, mostrano facce funeree, più esplicite di un trattato di economia. Un terzo delle auto gira senza assicurazione, e spesso si tratta di auto in fermo amministrativo. Ascoltando gli umori della gente comprendo come mai durante la guerra, con i bombardamenti ed il pane razionato, i cinema e le sale da ballo fossero piene. Quando uno non vede un futuro, e teme, anzi, la catastrofe, cerca di godersi la vita più che può, sperando di dimenticare, per qualche ora, le proprie miserie. La gente è disillusa, e non crede più a niente. La fiducia nello stato e nelle istituzioni è praticamente nulla, ed il comportamento collettivo sembra tornare a quello del dopoguerra, in cui ognuno cercava di arrangiarsi. Prima il pane, poi lo stato. E se si guadagna solo il pane che lo stato vada a farsi fottere. Stanchi delle perpetue promesse, regolarmente disattese, e nauseati dall'immutabile teatrino della politica, ci si affida al fato, confidando nella buona sorte. Intanto la percezione dello sfascio è forte e concreta. Tutte le strade sono in uno stato pietoso, da paese da terzo mondo. Il verde pubblico è in stato di abbandono. Innumerevoli gli edifici pubblici iniziati e mai finiti, e quelli in uso cadono a pezzi dopo pochi anni, degradando per totale mancanza di manutenzione. Il servizio di raccolta rifiuti funziona sempre peggio, e più aumenta la tarsu, più sporcizia e degrado aumentano. I comuni, all'affannosa ricerca di denaro, si inventano di tutto, dalle multe ai parcheggi a pagamento, dall'aumento vertiginoso delle tasse di occupazione suolo pubblico a quelle per i passi carrai. Tutti si aspettano che tra breve venga messa una tassa sulla circolazione pedonale. Eppure i soldi non bastano mai, e ne occorrono sempre di più. Ma mentre le tasse ed i balzelli aumentano, i redditi delle persone diminuiscono, e sempre più cittadini non riescono a far fronte ai pagamenti. La situazione è esplosiva, molto peggiore di quanto possa credere chi guarda le cose con distacco e superficialità. Ed è destinata a finire con un gigantesco botto. In questo contesto sempre più persone gettano la spugna. Non ce la fanno più. Ed allora succeda quel che deve succedere! Intanto fanno quel che possono, cercando di guadagnare il necessario per sopravvivere, e non si curano più della contabilità, delle tasse, delle scadenze. E se alla fine del mese gli resta qualcosa in tasca, la utilizzano per godersi la vita o togliersi qualche sfizio E' una schiera che si va sempre più ingrandendo, e contro la quale lo stato, con i suoi strumenti, è totalmente impotente. Ed infatti succede che le grinfie dello stato si concentrano esclusivamente su chi possiede qualcosa, anche se si tratta di persone che hanno sempre pagato le tasse. Un pretesto per eseguire un accertamento si trova sempre. Intanto si fa cassa, e poi il contribuente ricorrerà, aumentando la schiera dei creditori a babbo morto. Fra non molto pretenderanno un'acconto sulle tasse dei prossimi anni, e metteranno una patrimoniale, e faranno un prelievo forzoso sui conti correnti. Ma nulla riuscirà ad evitare il collasso. Ed allora, quelli che sono usciti dal sistema, non si curano più di nulla, e non guardano neanche più la televisione. Fra un po sarà primavera, e sarà bello andare in campagna, e godere dei primi tepori e del risveglio della natura. I fuoriusciti vi si recheranno con una certa frequenza, banchetteranno con quattro soldi e si stenderanno sull'erba per farsi carezzare dalla brezza. Ed ozieranno, alla faccia di tutti quelli che vorrebbero vivere sul loro lavoro. Ozieranno e guarderanno a valle, per vedere il passaggio di tutti i cadaveri di coloro che non hanno ancora capito un kazzo.

Nel mondo ci sono sempre state persone particolarmente intelligenti, tanto da vedere cose che altri non riuscivano a vedere. Tempo fa lessi alcune pagine del Candido, celebre giornale satirico degli anni "50 in cui scriveva Giovannino Guareschi. Ebbene, un suo intervento mi colpì molto. Riguardava il fatto che il ministero della pubblica istruzione intendeva aumentare le ore di studio dei bambini delle scuole elementari, oltre ad ampliare i relativi programmi. Guareschi sosteneva che la cosa era di una stupidità enorme. I bambini, sosteneva, debbono sopratutto giocare. C'è un tempo per ogni cosa. E' il gioco che sviluppa la loro intelligenza, molto più di qualunque studio. Per studiare davvero occorre lasciar loro trascorrere la fanciullezza. Effettivamente da quella scuola elementare, dai programmi estremamente semplici, sono venuti comunque fuori geni come Marconi, Fermi, Zichichi, Levi montalcini, e milioni di altri italiani che hanno fatto grande il nostro paese. Il genio, al momento giusto, viene fuori da solo, e solo allora sarà fondamentale lo studio. Ed un medico che ho sentito ultimamente metteva in allarme le persone, sostenendo che la mancanza di attività fisica, praticata attraverso ore di giochi all'aria aperta, avrebbe creato una generazione di malati cronici già in tenera età. Stiamo, sosteneva, distruggendo il futuro. Ecco la necessità di fermarsi un momento e riflettere seriamente su cosa stiamo combinando. Siamo così presi dalla frenesia del lavoro e del consumo, da non renderci conto di essere oramai prossimi al precipizio. E ci cadremo di slancio, grazie anche a quelli come Monti, e sono tanti, così rimbambiti dagli studi economici da non vedere altro che regole contabili e di bilancio, come se la vita di una persona fosse una partita doppia. Sono le stesse persone che sostengono che occorre specializzarsi, che occorre essere flessibili, che la mobilità geografica sia buona cosa, che la competizione è fondamentale, che il libero mercato è il" migliore dei mondi possibili", che la globalizzazione sia un bene per tutti. Una serie di boiate mega galattiche, che solo gente che ha perso il senso più profondo della natura umana, può sostenere.

Mio figlio è un caprone. Fin dall'infanzia ha sempre aborrito lo studio. E' stata una vera impresa riuscire a fargli prendere un diploma, cosa che comunque non gli ha impedito di restare analfabeta, come buona parte dei diplomati. Ho temuto, spesso, di essere il responsabile della sua crisi di rigetto nei confronti dei libri, avendone riempito la casa ed avendoli trattati con lo stesso riguardo che si riserva ad una persona cara. Dovrò chiedere allo psicologo. Fatto sta che mio figlio, quando vede un libro, ha la stessa reazione che avrebbe un vampiro a cui viene mostrato un crocefisso Eppure mia figlia, benché vissuta nella stessa casa, pare immune da questa fobia. Anzi, forse perchè la natura tende sempre all'equilibrio, ha acquisito il mio stesso vizio di gioventù, quello di leggere tanto, forse troppo. Si tratta di quegli errori che facilmente si commettono in giovane età, inconsapevoli delle conseguenze che questi stravizi comportano. Intanto, forse per compensare la magnifica e consapevole ignoranza del fratello, si è diplomata e laureata con il massimo dei voti. Nacqui pidocchioso, così come vissi e come probabilmente morirò. Con la conseguenza che non lascerò ai miei figli alcun patrimonio, per quanto piccolo possa essere. Per riscattarmi da questa colpa ho cercato almeno di dare ai miei figli quello che la mia condizione mi permetteva: la buona educazione, il rispetto per il prossimo, il senso della dignità. E debbo dire che, almeno in questo, ho avuto successo. Anzi, debbo essere sincero, un piccolo fallimento lo debbo riconoscere. Fin da quando mia figlia è divenuta signorina ho cercato di inculcarle l'idea che non è indispensabile che una donna, per essere tale, debba necessariamente stritolare i Koglioni agli uomini. Che non seguisse, quindi, l'esempio della madre. E' stato tutto inutile. L'impresa ,più che ardua, era impossibile. Divenuta adulta ha acquisito la stessa capacità della madre e, temo, di tutte le donne, di ballare con i tacchi a spillo il TIP-TAP sulle palle degli uomini. Me ne accorgo ogni qualvolta si presenta con un nuovo fidanzato. Anzi, a proposito di fidanzati, le ho detto ultimamente che non può cambiare un fidanzato l'anno; se volesse provare tutti gli uomini non le basterebbe la vita e prima o poi occorre decidersi.
"Papà", mi ha detto,"devi sapere che c'è una vera e propria epidemia di ricchionaggine. Appena conosci un ragazzo bello, atletico, curato, gentile, colto, ti accorgi che è gay. C'è una vera e propria penuria di maschi. Mi sa che resterò zitella." Mia figlia ha un bel caratterino, ed una forte personalità. Dopo la laurea ha sostenuto diversi colloqui presso grandi aziende e multinazionali. Alle proposte oscene relativamente alla paga o al contratto non si è limitata a rifiutare con garbo e salutare, ma ha sempre replicato sostenendo che fosse più dignitoso fare la puttana che accettare quelle condizioni di lavoro. Il lavoro, intanto, se lo è inventato. Anzi, più che un lavoro svolge contemporaneamente più lavori, sempre in autonomia, che le consentono di guadagnare bene. Per me, che sono il padre, tutto ciò è fonte di grande soddisfazione. Sicuramente non ho dei figli bamboccioni, ma dei ragazzi in gamba che si sono sempre dati da fare, disposti a svolgere qualunque lavoro pur di essere autonomi e non dover dipendere da nessuno. Anche il maschio, quello analfabeta, lavora, guadagna bene, fa quello che desiderava, è felice. Ho scoperto ultimamente che, addirittura, fa tutti gli scontrini e paga tutte le tasse. Questo fatto mi ha sconvolto. Nel mio ambiente, essere davvero in regola, è una cosa di cui abbiamo spesso sentito parlare, ma che non abbiamo mai avuto modo di veder applicata nella realtà. L'evasione fiscale è una tradizione di famiglia, ma anche le tradizioni, si sa, con il tempo svaniscono. Comunque, qualche giorno fa, mio figlio, sempre quello analfabeta, mi ha fatto una domanda: "Papà, cos'è l'economia?". Vedi figlio mio, l'economia è una cosa semplice, molto semplice. Anche se gli "esperti" vogliono farla apparire complicata, in realtà non lo è. Purtroppo questi esperti debbono giustificare i loro stipendi ed i loro privilegi dando l'impressione che si tratti di una materia per pochi iniziati, complessa ed astrusa; è una truffa. Innanzitutto ti dico che l'economia si occupa della ricchezza e della sua distribuzione. Occorre, quindi, definire la ricchezza. La ricchezza è l'insieme dei beni di cui una popolazione può godere, e questi beni possono essere materiali, come gli oggetti, o immateriali, come uno spettacolo teatrale. Tanti più beni sono a disposizione della popolazione tanto più quella popolazione può considerarsi ricca. Quasi tutti i beni sono prodotti dall'attività umana. La capacità di produrre beni si chiama produttività, e dipende dalla tecnologia, dalla conoscenza, dall'organizzazione, dalle infrastrutture, ma anche dalla geografia, dal clima, dalla cultura. L'economia non è una scienza, ma un insieme di teorie e di esperienze. Essa è in gran parte imprevedibile perchè dipende in buona parte dal comportamento umano, quasi sempre irrazionale. I fatti economici sono influenzati profondamente da due elementi insiti nella natura umana: il desiderio di avere sempre di più ed il desiderio di vivere sulle spalle degli altri. Il primo elemento è quasi sempre positivo, perchè spinge a lavorare di più e meglio, a creare prodotti nuovi o a migliorare quelli esistenti. Da questo la società trae grandi vantaggi. Il secondo è negativo, perchè alcuni, più furbi o più intelligenti o più forti, cercano di sfruttare il lavoro degli altri e di appropriarsi di buona parte della ricchezza che altri hanno prodotto. Il compito dello stato è quello di garantire un certo equilibrio, ed evitare che pochi abbiano troppo, con la conseguenza inevitabile che troppi abiano poco. Quando lo stato non riesce ad evitare questo squilibrio si creano delle tensioni che, ad un certo punto, rompono il sistema attraverso guerre o rivoluzioni. In tal modo si ricreano nuovi equilibri, lo stato cerca di mantenerli fin quando quelli che vogliono vivere alle spalle degli altri esagerano nuovamente, ricreando squilibri e rotture, e ripetendo il ciclo. Ecco, figlio mio, questa è l'economia. Tutte le quisquilie tecniche che senti dagli esperti non sono che dettagli. L'essenziale è quello che ti ho spiegato. "Hai ragione Papà" ha replicato mio figlio,"quelli che gestivano il locale prima di noi erano entrambi laureati in economia aziendale, ed hanno chiuso pieni di debiti. Io ed il mio socio non capiamo nulla di economia, ma sappiamo cosa vogliono i nostri clienti, come trattarli, e sappiamo farci voler bene. Il nostro locale è sempre pieno."
                                          "Papà, meno male che sono rimasto analfabeta".

Voglio riportare il discorso di un anziano compaesano, analfabeta e partito completamente squattrinato, che ha creato un'azienda con 80 operai ed ha esportato per 20 anni la quasi totalità della sua produzione:
" vedi Giorgio, tu sei giovane (sic!), e non sai come funzionavano le cose ai miei tempi. Se io, con la mia piccola bottega, avessi pagato sempre tutto quanto lo stato pretendeva, sarei andato in pensione miserabile così come sono partito. E' solo grazie all'evasione fiscale che io, come tutti gli altri imprenditori di allora, abbiamo potuto mettere da parte quelle somme necessarie ad acquistare un nuovo macchinario, o ad affittare un locale più grande. Man mano che ci ingrandivamo aumentava il nostro reddito sul quale poi pagavamo le tasse, ma sempre molto meno di quanto sarebbe stato corretto secondo lo stato Mentre io ed altri imprenditori ci ingrandivamo, evadendo il fisco, assumevamo sempre più persone. Si dice che i dipendenti pagano le tasse. In realtà le tasse dei dipendenti eravamo noi a pagarle. Ai miei operai interessava solo sapere quanti soldi prendevano al netto. Quando assumevamo una persona ci mettevamo d'accordo sulla paga. Se si stabiliva che l'operaio avrebbe preso 120 mila lire al mese, si intendeva che quella somma fosse netta. Poi l'onere dei contributi e delle tasse erano, nella sostanza, a carico del datore di lavoro. Io ho fatto lavorare circa 80 persone. Ho pagato tasse e contributi enormemente superiori a quanto avrei pagato se fossi stato "onesto" per la semplice ragione che sarei rimasto un piccolo e miserabile artigiano. Ti ricordi che al nostro paese c'erano decine di fabbriche con migliaia di dipendenti? A quei tempi i soldi giravano per tutti. Tutti quelli che avevano uno stipendio acquistavano la casa, si vestivano, andavano in vacanza. In pratica c'era trippa per tutti. Ad un certo punto le cose sono cambiate. Tutto è diventato più difficile. Oggi sarebbe impossibile per un piccolo artigiano diventare un industriale. Tra tasse, regolamenti e burocrazia, a malapena si riesce a stare a galla. Oggi per fare l'industriale, e quindi dare lavoro, devi partire già con un capitale di milioni di euro. Ma chi oggi ha quel capitale si guarda bene dall'investire in una attività manifatturiera. E se proprio volesse farlo, andrebbe a farlo in quei paesi che funzionano come funzionava l'Italia dei miei tempi. Nel nostro paese ci sono tante persone che si sono fatte una posizione in quegli anni. Abbiamo evaso le tasse, è vero, ma abbiamo fatto lavorare per trenta anni migliaia di persone, che hanno consumato, hanno fatto studiare i figli, hanno dato lavoro ai costruttori. Credi che sia meglio oggi, con il peso delle tasse attuale ed i controlli asfissianti? Oggi è difficile fare l'imprenditore, con margini sempre più ridotti sui quali il fisco banchetta con inusitata ingordigia? Chi si mette a fare l'imprenditore, investendo soldi e rischiando tutto per portarsi a casa lo stipendio che guadagna un dipendente? Sempre che ci si riesca. E così abbiamo schiere di giovani disoccupati e senza futuro, che naturalmente non si sposano e non si tolgono dai Koglioni. Ma che colpa hanno? Tutto è complicato, tutto è difficile. Io non ho studiato, e sono ignorante. Ma stai attento a quelli che hanno la laurea, perchè credono di sapere cose che in realtà non sanno Immagina che al nostro paese aprisse una fabbrica che desse lavoro a 5000 persone, e che il proprietario di questa fabbrica non pagasse una lira di tasse; sarebbe un male? Se qualcuno ti dice di si vuol dire che non ha capito un Kazzo. Cinquemila persone stipendiate fanno entrare nelle casse dello stato qualcosa come 70 milioni di euro l'anno, oltre a far girare tutta l'economia del paese. Alla fine chi se ne frega se il proprietario della fabbrica evade un milione di euro di tasse. Invece quelli che hanno studiato dicono che è meglio avere 5000 disoccupati, far morire tutta l'economia del paese, piuttosto che accettare l'evasione fiscale. Dimmi un po tu se non è un ragionamento da Koglioni? Ecco, Giorgio, il nostro dramma, anzi il vostro, perchè io ormai sono vecchio, è che siete governati da un branco di Koglioni.

Non so se avete presente quel tipo di persone che io chiamo "idiota italicus". Si tratta quasi sempre di un dipendente pubblico senza alcuna qualità che ha fatto carte false a livello di raccomandazioni per entrare nella pubblica amministrazione, e sostiene che in italia manchi la meritocrazia. Avendo un diploma crede di essere una persona di cultura, anche se non ha mai letto un libro "perchè non ha tempo" . Inconsapevole della propria mediocrità, ama pontificare su tutto, sopratutto su cose di cui non sa assolutamente nulla. Si tratta di un personaggio molto diffuso in Italia, che in fondo non sarebbe nocivo se la sciocchezza del suffragio universale non gli avesse concesso il diritto di voto.
Questa sera ne ho incontrato uno dal fruttivendolo, che, credendosi in possesso di una saggezza preclusa a quelli che non hanno un impiego pubblico, ha iniziato a sparare i soliti inconsistenti slogan:
"la colpa di tutta questa crisi è che la gente spende troppo, e non è più abituata a fare sacrifici"
"mi scusi" sono intervenuto, " quindi lei sostiene che la gente dovrebbe consumare di meno?"
"certamente" rispose, "la gente è viziata, e non vuole rinunciare al superfluo"
"quindi lei sostiene che tutti dovremmo rinunciare a tutto quanto non è indispensabile, tipo il telefonino, andare a mangiare la pizza, prendere il caffè al bar, andare in palestra?"
"certo, ogni famiglia potrebbe risparmiare un sacco di soldi e metterli da parte. Ma dove sta scritto che tutti debbano fare le ferie? Io, ad esempio, sono anni che non entro in un bar, non vado al cinema, non mangio fuori casa.
"ma se nessuno entrasse in un bar, i bar chiuderebbero"
"e che chiudessero, non sono indispensabili"
"ma se non usassimo i telefonini le compagnie telefoniche chiuderebbero"
"peggio per loro, non è che dobbiamo usare i telefonini solo per far guadagnare le compagnie telefoniche"
"ma se chiudessero le compagnie telefoniche tutti i dipendenti perderebbero il lavoro"
"ma non è un problema mio, mica posso preoccuparmi di quelli che vengono licenziati"
"ma lo sa che la metà degli italiani lavora producendo quello che lei definisce superfluo?"
"e cosa vuol dire?"
"vuol dire che se tutta la gente consumasse solo l'indispensabile la metà delle aziende chiuderebbe e la metà di coloro che lavorano resterebbero disoccupati"
"ma io non posso farci niente, mica è colpa mia"
"e mi dica, chi le paga lo stipendio?"
"lo stato"
"e lo stato dove li prende i soldi?"
"dalle tasse"
"e se metà delle aziende chiude e metà dei lavoratori restano disoccupati, anche il gettito fiscale si riduce della metà. A quel punto lo stato dove li prende i soldi per pagare il suo stipendio?"
"scovando gli evasori. Io pago tutte le tasse fino all'ultima lira e gli autonomi sono tutti ricchi. Lo stato li dovrebbe mettere tutti in galera. Siamo noi che manteniamo l'Italia"
A questo punto ho desistito, mi sono voltato e sono andato via senza salutare. Non c'è niente da fare, niente....



Sebbene la città di Pescara conti una popolazione di soli 130 mila abitanti, essa rappresenta il fulcro di una conurbazione di circa 350 mila abitanti, comprendente le città di Chieti, Francavilla, Montesilvano ed altre decine di piccoli comuni. Si tratta di un'area molto vasta, completamente urbanizzata, senza soluzione di continuità tra un comune e l'altro. Aree industriali si alternano ad aree residenziali, centri commerciali a svincoli e raccordi stradali. Praticamente, come accaduto in molte zone d'Italia, la campagna è stata pian piano fagocitata da una cementificazione prepotente ed invadente, spesso disordinata, sempre devastante. Una delle cose che balza subito all'occhio di qualunque osservatore è l'enorme numero di locali e strutture commerciali in locazione o in vendita. Palazzi finiti alcuni anni fa hanno l'intero piano terreno sfitto. Stessa sorte a strutture commerciali di grandi dimensioni, spesso dall'architettura sofisticata o comunque ricercata; desolatamente vuote. Viene da chiedersi se non si siano fatte delle valutazioni sbagliate sulla consistenza di una domanda che, probabilmente, si riteneva dover crescere all'infinito. Dubito che la scarsità di domanda di locali commerciali sia da imputare esclusivamente all'attuale momento recessivo. Questo forse può valere per le zone centrali particolarmente votate al commercio, laddove fino ad un paio di anni fa era praticamente impossibile trovare un locale libero, mentre oggi abbonda l'offerta di locazioni commerciali. Credo, piuttosto, che il destino di questi immobili non avrà miglior sorte allorquando questa crisi dovesse avere termine. E questo per una serie di ragioni che si possono riassumere con il fatto che l'economia del prossimo futuro avrà una struttura diversa da quella attuale. Nel caso specifico del commercio credo che il futuro vedrà un consolidamento delle grandi strutture di vendita specializzate appartenenti a catene più o meno diffuse, all'incremento del commercio elettronico, alla sopravvivenza dei piccoli negozi del lusso o comunque di alto livello, alla lenta agonia e scomparsa del piccolo commercio. Comunque vada, è chiaro che la superficie complessiva destinata al commercio subirà un grande ridimensionamento, e molti che hanno acquistato locali commerciali nella speranza di garantirsi una piccola rendita, avranno fatto un pessimo investimento. A fine Agosto apre la nuova struttura dell'IKEA. Posizionata strategicamente all'uscita dell'autostrada Pescara-Ovest, domina, con il suo inconfondibile blu, l'intera zona, essendo posizionata su una leggera altura. Il suo insediamento ha comportato ulteriori lavori, con la costruzione di rotatorie, svincoli, raccordi, incrementando la già enorme superficie di territorio destinata alla circolazione dei veicoli. Naturalmente questo ulteriore scempio è giustificato dal fatto che deve essere fatto tutto il possibile per agevolare l'arrivo dei clienti e garantire incassi stimati in decine di milioni di euro l'anno. I più ingenui plaudono a questa iniziativa, sostenendo che garantirà un certo numero di posti di lavoro. La verità è piuttosto diversa, ed in fondo più amara. Innanzitutto ciò che l'IKEA incasserà sarà fatturato sottratto a decine di negozi tradizionali. Si può ragionevolmente stimare che ogni punto vendita IKEA porti alla chiusura di almeno 50 rivenditori di livello medio e basso. Altri 50 locali commerciali resteranno inutilizzati, incrementando la già inflazionata offerta di immobili in locazione. Ma la cosa socialmente di maggior rilievo è che non saranno creati nuovi posti di lavoro, ma si trasformeranno 100 lavoratori liberi e padroni delle loro vite in 100 schiavi. 100 giovani verranno assunti e 100 cinquantenni si ritroveranno senza lavoro e senza speranza di poterne trovare uno nuovo regolare e dignitoso. Questo crimine viene chiamato libero mercato, ed il suo scopo finale è quello di garantire tanto ai pochi e poco ai tanti. Comunque non ho intenzione di fare, in questo momento, considerazioni di ordine morale. Io osservo, descrivo ciò che vedo, e lascio che ognuno faccia le proprie considerazioni. I centri commerciali, tanti, onnipresenti, istruttivi Se qualcosa può essere preso a simbolo della nostra epoca, nulla è più didascalico del centro commerciale. Sebbene ognuno di essi abbia un aspetto architettonico diverso, nella sostanza sono tutti uguali. Il livello medio dei prodotti in vendita è decisamente basso, così come il livello sociale dei suoi frequentatori. Essi, a mio parere, sono le nuove piazze in cui una umanità moralmente vuota ed economicamente depauperata consuma l'illusione di essere ancora nella condizione di poter acquistare il superfluo. L'angosciante atmosfera di finta allegria, la scenografica e falsa opulenza dal sapore decisamente kitch, la totale incompetenza delle commesse dal sorriso a gettone, accolgono i nuovi poveri già preventivamente rimbambiti dalla televisione, dal presente incerto e dal futuro drammatico. Qualcuno potrebbe sostenere che, se tanta gente frequenta i centri commerciali, vuol dire che essi sono la risposta ad esigenze reali delle persone, ed è giusto che ve ne siano in abbondanza. In fondo sono le persone che scelgono, e nessuno deve sindacare queste scelte. Forse è vero. Ma è anche vero che tantissimi fanno uso di sostanze, bevono troppo, fumano, si giocano gli stipendi alle slot o ai grattini. Il fatto che queste persone facciano queste cose liberamente, senza alcuna costrizione, non vuol dire che queste cose siano buone. Vuol dire, forse, che una grossa fetta della popolazione ha gravi problemi esistenziali, smarrita in un mondo dai valori incerti e dalla morale degradata. Si tratta, in fondo, della stessa umanità dallo sguardo vuoto che vaga incerta nei centri commerciali. Spera di appagare in tal modo la sua estrema solitudine. In ogni caso anche i centri commerciali non sfuggono all'inflazione immobiliare ed alla crisi economica. E' grandissima la quantità di locali sfitti. In alcuni centri commerciali meno frequentati la metà degli spazi è desolatamente inutilizzata. E sospetto che lo sarà a lungo. Eppure le richieste di autorizzazioni per l'apertura di nuove strutture sono numerose. In particolare gli appetiti degli speculatori si stanno concentrando sulle numerose aree industriali dismesse. Sperano in un cambio di destinazione d'uso, bazzicano con generosità i territori della politica, propagandando l'idea che il lavoro perso nell'industria sarà compensato da quello necessario al funzionamento dell'ennesimo centro commerciale. Sembra che il futuro del nostro paese si baserà sul commercio di merci importate dai più convenienti paesi in via di sviluppo. Si tratta di follia, di pura e criminale follia. Ma pochi, purtroppo, hanno il coraggio di mettere in guardia dalle nefaste conseguenze di questa scelta. Coloro che dovrebbero guidare il paese vivono alla giornata, aggrappati ai loro scranni e, forse, incapaci di una visione chiara di quanto sta avvenendo in questi tempi difficili. L'area industriale di Chieti Scalo, come un po tutte le aree industriali d'Italia, è una sterminata distesa di rugginose strutture industriali dismesse. Laddove lavoravano migliaia di operai non resta che un paesaggio metafisico dove le sterpaglie sembrano voler fagocitare ciò che resta di gloriose officine. Un po grazie alle nuove tecnologie, un po grazie alle delocalizzazioni, gli addetti all'industria scemano di anno in anno.



C'era un signore cattivo, tanto ben organizzato, tanto furbo e tanto forte, da essere riuscito a ridurre in schiavitù buona parte dei suoi concittadini.Il signore cattivo aveva l'abitudine di sodomizzare i suoi sudditi. A parte alcuni che provavano piacere nel prenderlo in Kulo, la maggior parte accettava questa umiliazione come qualcosa di inevitabile e, forse, giusta. Solo una sparuta minoranza, la più orgogliosa, era scappata e si era data alla macchia pur di non rinunciare alla propria dignità. Gli appetiti del signore cattivo, ahimè, aumentavano di anno in anni, fin quando la sua attività di sodomizzatore non provocò tali danni allo sfintere dei suoi sudditi da provocarne il malcontento e le proteste. La colpa, disse l'uomo cattivo alla folla, è di coloro che sono scappati sui monti. Se anche loro si lasciassero sodomizzare la mia brama nei vostri confronti si attenuerebbe. Ad un popolo che, perdendo ogni dignità, si lasciava sodomizzare da anni, era facile darla a bere. E così tutti si convinsero che la colpa del fatto che lo prendessero continuamente in Kulo non era dell'uomo cattivo, ma di coloro che si rifiutavano di farsi sodomizzare. Fu così che l'uomo cattivo, guardando la folla inveire contro coloro che si rifiutavano di prenderlo in Kulo, salutò i suoi schiavi, accennando un sorriso beffardo.


- Buon giorno onorevole.

- Buon giorno a lei, dottore, si accomodi. Il segretario del mio partito ha tanto insistito sull'urgenza di riceverla. A cosa debbo la sua visita?
- Vede, onorevole, io vengo da parte di coloro che hanno consentito la sua carriera, il suo benessere, la sua fetta di potere. Deve capire che queste persone si aspettano da parte sua una certa riconoscenza. Pare, invece, che lei non voglia più collaborare, e si sia messo in testa delle strane idee.
- Riconoscenza? Collaborazione? Ma di cosa sta parlando? Se sono in debito verso qualcuno lo sono nei confronti dei miei elettori, e debbo la mia carriera solo a me stesso. Da quando ero ragazzino ho lavorato sodo per raggiungere questa posizione. Dottore, se questo è uno scherzo, ha sbagliato giornata, se invece parla sul serio la pregherei di guadagnare l'uscita; ho cose importanti a cui dedicarmi.
- Mi aspettavo la sua reazione, onorevole, ma non è il caso che si agiti. E' necessario che lei mi ascolti, ne va del suo futuro e di quello dei suoi figli.
Ma davvero crede che uno come lei, un mediocre, avrebbe raggiunto la posizione che occupa esclusivamente in ragione delle sue capacità? Suvvia, onorevole, sia più modesto. Lei è stato scelto, e il suo percorso è stato guidato ed agevolato proprio da coloro che ora pretendono di riscuotere la loro parcella. Tutti quelli che occupano posizioni di potere sono stati scelti per eseguire le disposizioni di coloro che stanno al di sopra di tutto, anche di lei, anche dello stato. Anche quelli che hanno idee diverse ed opposte a questo potere sono stati scelti perchè funzionali alla grande farsa della democrazia.
Coloro che davvero comandano non seggono sugli scanni parlamentari, stanno nell'ombra.
- Ma lei chi è? Come si permette di parlarmi in questo modo? Io sono un parlamentare, e rappresento lo stato. Le sue mi sembrano minacce...
- Minacce? Mi pare eccessivo, direi che si tratta di consigli. Vede, io immagino che lei voglia continuare la sua carriera, anche perchè non sarebbe capace di fare altro. Ebbene, se desidera mantenere il suo tenore di vita, ed appagare con il potere il suo malcelato narcisismo, è opportuno che si tolga dalla testa certe idee.. - A cosa si riferisce?
- Al fatto, ad esempio, che lei stia formando un movimento contrario alla cessione di sovranità ad organismi sovranazionali. Al fatto che lei sostiene l'opportunità di un ritorno alle valute nazionali ed al controllo pubblico dell'istituto di emissione. Alla sua avversione al liberismo ed alla globalizzazione. Al fatto, assolutamente inaudito, che lei ed il suo movimento sostenete l'opportunità di una redistribuzione della ricchezza.
- Ma è evidente oramai che si sono commessi dei gravi errori, e che certe politiche stanno portando al disastro intere nazioni. Io, insieme al mio movimento, vogliamo correggere questi errori.
- Onorevole, vede che ho ragione quando sostengo che lei sia un mediocre?
Non sono stati commessi errori. Tutto quanto è stato fatto fa parte di un ben preciso programma. Non vi è nulla di casuale in quanto sta avvenendo; è tutto previsto. La paura, l'insicurezza, la precarietà, la miseria, sono funzionali affinchè la popolazione accetti con sollievo misure che altrimenti non sarebbero accettate.
- Ma il popolo sta soffrendo, e le cose peggiorano di mese in mese. E' nostro dovere, intendo della classe politica, fare il possibile per garantire il maggiore benessere possibile ai cittadini.
- Il popolo? Quale popolo? Quello che lei chiama popolo non conta nulla, non ha mai contato nulla. La storia è stata fatta da poche elitè. Tutto quanto è avvenuto lo è stato sempre all'interno di una ristretta minoranza. La storia del mondo è la storia delle minoranze, delle loro idee, dei loro interessi, dei loro scontri. Il popolo non fa la storia, non l'ha mai fatta
- Ma oggi il popolo è più istruito, più consapevole....
_ Onorevole, oggi il popolo è lo stesso di duemila anni fa. Il popolo non vuole pensare, perchè pensare stanca. Il popolo non vuole lottare, perchè costa fatica. Il popolo vuole semplicemente che qualcuno pensi a loro, che gli garantisca la sopravvivenza, la sicurezza e qualche divertimento. Noi vi aggiungiamo il fattore X, quell'elemento che ci garantisce la conservazione dello status quo.
- Fattore X? - Esatto, fattore X. Noi facciamo i modo che ogni cittadino si creda più furbo degli altri, e riesca, in qualche modo a truffare il prossimo o lo stato, attraverso l'evasione fiscale, il non rispetto delle leggi, la corruzione, il piccolo intrallazzo. In questo modo ognuno vive nell'illusione che prima o poi riuscirà a vivere sulle spalle degli altri. Questa è la massima ambizione di ogni essere umano.
Noi ci premuriamo di tenere viva questa illusione, che rappresenta il vero strumento per il controllo dei popoli. Se la gente perdesse la speranza di poter, prima o poi, far parte di quella minoranza di privilegiati che davvero comandano il mondo, ci ritroveremmo con una massa di disperati che, non avendo un futuro, si solleverebbero contro le elitè. L'invidia sociale prevarrebbe sull'illusione di una improbabile scalata sociale.
Questo, naturalmente, non possiamo permettercelo.- Ma io...Io credo che il popolo debba essere tutelato. E' il mio dovere.
- Allora debbo essere franco: se la classe politica dovesse decidere in modo contrario agli interessi della plutocrazia che governa il mondo, verrebbe messo in atto il piano di emergenza. E le spiego di cosa si tratta. La crisi finanziaria verrebbe portata all'estremo, e l'intera economia reale collasserebbe. Con essa collasserebbero gli stati, non più in grado di garantire i servizi essenziali, le pensioni e gli stipendi. La gente, esasperata, guidata dai nostri ben addestrati uomini, si solleverebbe, indirizzando le proprie ire proprio nei confronti della classe politica, ritenuta responsabile di ogni disastro.
Non dimentichi che controlliamo la stampa, la televisione, la magistratura e le forse dell'ordine.
Quelli come lei, onorevole, se mai dovessero scampare alla furia popolare, come minimo verrebbero spogliati di tutti i loro beni e messi a marcire in galera.
Quando il leader da noi designato e sostenuto avrà preso il potere, faremo in modo da immettere denaro nel sistema, risollevando l'economia ed il tenore di vita della popolazione. Allora la gente sosterrà questo " salvatore della patria" ed accetterà le sue decisioni.
- Quello che dice è incredibile!
- Se lei, onorevole, non fosse stato un mediocre, avrebbe capito da lungo tempo come realmente stanno le cose. I più importanti e potenti tra i suoi colleghi da lungo tempo collaborano con coloro che mi hanno mandato da lei.
In cambio della loro collaborazione hanno fatto brillanti carriere, si sono arricchiti ed hanno garantito anche ai figli un roseo futuro.
Ora credo di doverla salutare, non dubitando che sceglierà la cosa più giusta per lei e la sua famiglia.
- La ringrazio, dottore, per avermi edotto su cose delle quali ero all'oscuro. Sono stato un ingenuo.
Faccia sapere a chi di dovere che la mia collaborazione non mancherà, e porga loro i miei più sentiti ossequi.

Giorgio Fracchiolla

Stamani ho approfittato della giornata quasi primaverile per recarmi in campagna. C'è un posto, ai piedi del sub appenino Dauno, che amo in modo particolare. La sua caratteristica è quella di essere praticamente isolato dalla "civiltà". Lo sguardo spazia in ogni direzione senza incontrare capannoni, tralicci elettrici, strade importanti. Questo mi consente di godere di due cose di immenso valore: il vuoto ed il silenzio.
Il rumore di fondo che accompagna le nostre giornate, e di cui non ci rendiamo più nemmeno conto, è sostituito dal suono della vegetazione mossa dal vento e dal cinguettio di qualche uccello, pervadendo l'atmosfera di un impagabile senso di pace.
E' questo che mi spinge a queste fughe innocenti: la ricerca di qualche momento di serenità, e la sensazione di essere fuori dal meccanismo infernale della nostra modernità. Mi sento, per breve tempo, libero dall'obbligo della crescita, del consumo, del debito, della competizione, dell'innovazione. Mi sento libero dalla ragnatela delle norme, dei regolamenti, delle certificazioni, delle carte, dei registri. Libero dalla schiavitù di dover sostenere con le tasse una gigantesca sovrastruttura inefficiente e parassitaria, che sembra espandersi sempre più, alla maniera di una metastasi incurabile.
La cosa che maggiormente mi gratifica è la sensazione di sciogliere, per breve tempo, le catene che mi tengono legato ad un meccanismo al quale sento di non appartenere, ma al quale sono costretto mio malgrado. E' come se fossi costretto a partecipare ad un gioco al quale non voglio giocare, e nel quale vincono sempre gli stessi, con le loro carte truccate ed i loro piccoli imbrogli. Alla fine di ogni giocata mi ritrovo perdente, e con debiti che sarò costretto a pagare.
Se cerco di escludermi da questo meccanismo perverso mi chiamano asociale, egoista, venale. Mentre in realtà desidero solo fare la mia vita, senza rompere i coglioni a nessuno e senza che nessuno li rompa a me. Questo, purtroppo, non è possibile. I bari sono molto potenti, e mi bastonerebbero, applauditi dagli altri giocatori plagiati e resi schiavi inconsapevoli da questi astuti e cinici prepotenti.
Alla maniera di un intenditore che degusta un buon vino cercando di carpirne le più sottili sfumature, così respiro profondamente, gustando di questa aria meravigliosa il profumo inconsueto, foriero di ataviche ed inconsce reminiscenze. E mentre faccio questo mi chiedo per quale motivo sono costretto a finanziare una televisione che non guardo, dei giornali che non leggo, dei partiti che non voto, delle infrastrutture che non uso, e decine di migliaia di dirigenti che fanno un lavoro che non mi serve. Mi chiedo per quale motivo devo pagare per i servizi che uso un notevole sovrapprezzo, necessario a finanziare l'inefficienza e lo sperpero, ed il magna magna che da sempre rimpingua le tasche di pochi furbacchioni che vivono sul mio lavoro. Sono stanco.
Sono stanco di non poter scegliere. Sono stanco del fatto che altre persone surrogano la mia libertà, e pretendono di decidere per me, facendomi comunque pagare il conto. Vogliono convincermi che questa è la democrazia, il migliore dei sistemi possibili. Ma io so che è falso. Questa è una oligarchia camuffata da democrazia, dove una minoranza esercita il potere a spese di quello che chiamano popolo sovrano: una balla colossale. Se davvero il popolo fosse sovrano coloro che governano agirebbero secondo la volontà del popolo. Non lo fanno, adducendo la giustificazione che il popolo non sia in grado di decidere cosa sia giusto e cosa sia sbagliato.
Volgendo lo sguardo ad oriente vedo l'immensa pianura sfumare verso il cielo. Sembra infinita, ma non lo è. Io so che laddove terra e cielo si confondono inizia il mare. D'altronde nulla è infinito. Più o meno grande qualsiasi cosa ha un limite. Fa parte del sapere condiviso il fatto che nulla può crescere all'infinito. Eppure sembra che questo assioma sia sconosciuto all'oligarchia parassitaria che ci governa. Hanno creato delle strutture sempre più grandi e dispendiose, nella convinzione che comunque si sarebbero trovate le risorse per mantenerle. Ma sembra che la situazione sia sfuggita di mano.

Hanno creato il fardello del debito pubblico per sostenere spese che non si potevano sostenere. Ora che non è più praticabile la strada dell'indebitamento piuttosto che ridimensionare l'apparato pubblico, cercano nuove risorse tra la gente, utilizzando gli strumenti più indegni. Ogni sindaco si sente autorizzato a rastrellare soldi attraverso multe, parcheggi a pagamento, ticket di ingresso alle città, aumento di TARSU, imu, e chi più ne ha più ne metta. Eppure non sarà sufficiente, perché la spesa aumenterà più delle entrate. Alla fine tutto collasserà.
Inizierà con il collasso delle famiglie, seguirà quello delle aziende. A quel punto collasseranno lo stato, le regioni, i comuni. E di tutto questo dovremo ringraziare la cecità dei politici, ma anche della gente.
Proprio ieri leggevo che Visco invitava a lavorare di più e più a lungo. Sono rimasto basito. Ma questi grandi luminari delle cose economiche ci prendono in giro o, cosa davvero grave, in realtà non capiscono una mazza? Ma questi davvero credono che l'aumento della produzione possa non avere limiti?
Quanti palazzi, quanti capannoni, quante strade dobbiamo ancora costruire? Quante automobili dobbiamo acquistare? Quanta carne dobbiamo mangiare? E quanto petrolio dobbiamo bruciare?
Ma questi "professori" si rendono conto che l'unica crescita possibile riguarda solo i beni immateriali? La ricerca, il benessere psicofisico, la cultura, la socialità? La gente non desidera cambiare l'auto ogni 3 anni, la gente desidera avere tempo libero, leggere un libro, non avere l'affanno di trovare il secondo lavoro per soddisfare il bisogno di inutili e futili consumi. La gente desidera certezze, tranquillità, libertà.
E' naturale che coloro che si sono arricchiti grazie ad un certo modello economico tentino in tutti i modi di perpetuare questo modello. Sono a tal punto accecati dall'avidità da non rendersi conto che la festa è finita. Quando avranno terminato la loro opera di predazione e creato il deserto, non avranno più nessuno che sosterrà la loro voracità. Stanno tagliando, senza accorgersene, il ramo su cui sono seduti.
La rabbia che questi pensieri mi procurano svanisce nella luce di questa ancor timida primavera che cerca il suo legittimo spazio. E' il perpetuo gioco della natura. forte ed immutabile, come tutte le cose della natura. Troppo spesso dimentichiamo di farne parte, peccando di arroganza e di superbia. La vita, la nostra vita, è come un buon pranzo. Possiamo godere del vino e del cibo che ci vengono serviti, ma nella giusta misura. Se beviamo e mangiamo in eccesso trasformiamo il benessere in malessere.
Il progresso tecnologico ci consentirebbe di vivere bene, senza rinunce e senza affanni. Ma noi vogliamo strafare, eccedendo. Così siamo spinti a produrre sempre di più, sfruttando tutto il potenziale che la tecnologia ci mette a disposizione. E produciamo enormi quantità di merci inutili, eccedenti le nostre effettive necessità, consumando risorse naturali e tempo. Dimenticando che è proprio il tempo il bene più prezioso che abbiamo.
Il peccato della nostra società è proprio quello di non aver saputo godere dei vantaggi del progresso, creando dei mostri che ci stanno divorando: il debito, l'ansia, la solitudine, l'inquinamento, la disoccupazione.
La solitudine del fast-food ha sostituito il piacere del convivio, della condivisione lenta del cibo e delle idee. Lo squallore dei centri commerciali ha sostituito i colori, i profumi, i suoni e la preziosa anarchia dei mercati.
L'asettica ed ovattata velocità dei trasporti ha sostituito il gusto del viaggio e della scoperta.
La televisione ci ha imprigionati nelle nostre case e nei nostri egoismi, isolandoci dai vicini e dalla comunità.
Il successo a tutti i costi ha sfaldato le remore morali che costituivano il tessuto connettivo di una comunità.
L'edonismo ha distrutto la famiglia, vero, unico, inossidabile nucleo di ogni società armoniosa.
Abbiamo abbastanza di che vergognarci, se non fosse che anche il senso della vergogna appare sfumato.
Eppure continuano a martellarci di menzogne, che ripetute all'infinito diventano veri e propri dogmi. Occorre fermarsi un attimo e riflettere: ci accorgeremmo che tutto concorre allo sfaldamento della società, alla creazione di individui soli, senza legami familiari, territoriali, sociali e culturali. Degli automi privi di senso critico, di valori, disposti a lavorare e consumare nei modi e nei tempi stabiliti da altri. Tutto deve essere standardizzato: la lingua, la musica, la moda, le città, la moneta, le auto, le leggi, le tradizioni, il cibo. E quindi ogni sforzo appare giustificato per distruggere ogni diversità, prima fra tutte quella delle idee.
Si sta così creando il consumatore globale, dai gusti e dai desideri standard, al quale vendere i prodotti costruiti in miliardi di pezzi tutti uguali. Al quale far vedere lo stesso film in tutto il mondo. Al quale far consumare lo stesso cibo.
Sono stanco. Rivendico il mio diritto di essere diverso da ogni altro individuo, di essere, in sostanza,umano.
Voglio, pretendo, che mi si chieda il parere sulle scelte che riguardano la mia vita. Nessuno deve decidere per me, per il semplice fatto che io sono un uomo, ed in quanto tale al di sopra di ogni stato, di ogni organizzazione, di ogni ente. Possono esistere uomini senza stato, ma non può esistere stato senza uomini. Ne deriva che lo stato promana dagli uomini, e gli è sottoposto, ed ogni singolo uomo è portatore di diritti innati superiori a qualunque altro diritto creato dalla legge,
Troppo spesso il cosiddetto interesse generale usurpa i diritti naturali ed inviolabili degli uomini. Si tratta quasi sempre di una truffa: con il pretesto dell'interesse generale si legifera a favore della solita minoranza di parassiti che da sempre governano nell'ombra.
Ma io sono stanco, e voglio esercitare il mio diritto di essere padrone della mia vita. E colpirò il potere nell'unica forma efficace, quella che, esercitata da una moltitudine di uomini, è l'unica capace di recare danni irreparabili a queste oligarchie parassitarie.
Non la violenza, che mi vedrebbe sconfitto, ma lo stile di vita sarà l'arma con la quale colpirò il potere. Uno stile di vita che contempli il rifiuto di quelle azioni e di quelle scelte funzionali agli interessi dei miei nemici. Null'altro sarebbe per loro più deleterio, se questa guerra fosse condotta da milioni di persone consapevoli del grande inganno nel quale viviamo.
Intanto sono qui, in mezzo alla natura, nella quale mi sento avvolto e protetto come nel grembo di una madre. Sono qui e godo dell'aria, del silenzio, dei profumi che questa grande madre dispensa gratuitamente a tutti i suoi figli. E godo del mio ozio, consapevole che il grande parassita ne soffre.

Questa mattina mia moglie, portandomi il caffè, mi ha svegliato, interrompendo un sogno molto particolare. Non so se avete presente quei sogni che vorreste continuassero, tanto sono piacevoli. Ebbene, stavo sognando la Mangano, Silvana Mangano.
Mentre sorseggiavo il caffè mi beavo a ripensare le scene del sogno, e la cosa che mi ritornava alla mente con maggiore frequenza era il didietro di questa stupenda signora. Un bel didietro, solido, sostanzioso, quasi altero. Nelle sue misure oramai desuete mi pareva di leggere i canoni di un mondo molto diverso da quello attuale. Il confronto con le anoressiche mannequin nostre contemporanee fu inevitabile, e mi condusse con prepotenza ad un confronto tra due epoche, quasi che il didietro delle donne fosse l'allegoria di una società, e racchiudesse nelle sue misure la chiave di lettura di un ben più vasto orizzonte sociale.
Il didietro della Mangano, nelle sue forme abbondanti e rassicuranti, era il coronamento di due gambe altrettanto solide, su cui posava con la stessa grazia con la quale una trabeazione ben proporzionata posa sulle colonne di un tempio classico. Includeva, nelle sue rotondità, quell'insieme di valori condivisi da ogni ambito della società coeva. L'economia, il lavoro, la famiglia, avevano anch'essi qualcosa di concreto, di solido, di stabile.
Il didietro della manniquin è inconsistente, e poggia su due gambe decisamente precarie. La concretezza lascia il posto all'immaginazione, al virtuale.
Ed effettivamente questa fase terminale di una certa modernità è caratterizzata dall'annichilimento di valori quali la solidità e la concretezza, e dall'esaltazione del futile, del virtuale, della fuffa. L'apoteosi di questa vera e propria rivoluzione si è verificata nel momento in cui la finanza ha soppiantato la produzione.
Le ragioni della finanza hanno la priorità sulle ragioni dei popoli. E mentre i culi hanno perso consistenza e sostanza, anche la dignità delle persone ha subito la stessa sorte. Tutto questo mi rattrista molto, e cerco di mitigare questa tristezza ripensando al sogno di questa notte.